Germano Celant alla Triennale di Milano (foto Vittorio Zunino Celotto/Getty Images) 

Il Foglio Arte

Gli appunti per la guerriglia di Germano Celant sono più vivi che mai

Francesco Stocchi

Un dialogo per ripensare (non celebrare) tutte le mostre del grande curatore

Ora che ci viene più facile guardare avanti, ora che l’ottimismo verso il futuro non è solo una necessità ma una realtà, il tempo passato sembra prendere una forma più nitida. E’ passato poco più di un anno dalla scomparsa di Germano Celant, morte inghiottita dalle statistiche della pandemia e anestetizzata dalla confusione generale. Su queste pagine di un piccolo ma curioso giornale non siamo tanto bravi nelle celebrazioni, alle quali preferiamo le occasioni. Silvana Editoriale ha di recente pubblicato Germano Celant - The Story of (my) Exhibitions, uno sguardo enciclopedico di 560 pagine sull’attività curatoriale di Celant. Un’occasione per parlarne liberamente con Francesco Bonami.

 

 

Francesco Bonami: Fra tutte le mostre secondo te qual è la più interessante?

Francesco Stocchi: Ovviamente quelle che non conoscevo. Mi sono concentrato sulle scoperte, perché nel libro non c’è (volutamente) tutto, ma c’è tanto. Una cosa interessante è la famosa iterazione che fece dell’arte italiana: Royal Academy, Palazzo Grassi e Reina Sofia dove la mostra si chiamava Memorie del futuro, che poi culmina anni dopo con l’esposizione al Guggenheim, così cambiata rispetto a Identité Italienne al Pompidou nell’81. Interessante quindi come ha voluto man mano modificare e reinterpretare.

 

FB: Identité italienne, Memorie del futuro, Metamorfosi italiana.

FS: Secondo me questo la dice molto su di lui, il fatto che, invece di presentare e fare la classica mostra itinerante, ha costruito un progetto che poi si articolava. Una storia aperta.

FB: Da Identité italienne a Metamorfosi italiana è pieno di modificazioni, variazioni.

FS: Ed era quello che lui amava di più, questa idea della non fissità che ritorna anche se in modo parossistico in uno dei suoi ultimi progetti, quello della ricostruzione di When Attitudes Become Form. Riproporre il fugace, un’idea che mi sembra quasi irrealizzabile.

 

 

FB: Credo che lui fosse non contrario ma che aveva fatto anche resistenza a questa idea di rifare la mostra alterandola, come poi hanno fatto Thomas Demand e Rem Koolhaas. Credo che lui volesse fare una cosa più nel suo stile, una mostra filologica, e non una ricostruzione teatrale. Credo che non fosse d’accordo su questa cosa qui.

FS: Infatti un gran numero di opere sono state ricostruite perché molte non erano nate per durare. Si è voluto ridare forma al precario, sottraendogli la sua urgenza. Non facile. Quello che trovo in quel caso interessante era l’intento, non quello di tornare indietro e riadattare la storia a uno spazio nuovo, non un’operazione nostalgica, ma il ritornare, fare tornare il passato espositivo così com’era.

FB: Quella era la parte interessante.

FS: In quel caso cerca di mettere insieme il prima e il dopo, l’evento di ieri e il mito di oggi costringendoli a vivere in un tempo. A mio modo di vedere questo è qualcosa che in generale ha cercato di fare sempre. 

FB: Sì, forse la mostra When Attitudes Become Form è quella in cui lui è intervenuto meno, vista la presenza di Thomas Demand e Rem Koolhaas che immagino abbiano influito molto nella costruzione di quel progetto.

FS: Anche perché quando porti il punto di vista di un architetto e quello di un artista è normale che cambi completamente la prospettiva sulla storia e sulla mostra stessa. Forse l’idea è stata proprio quella di considerare la mostra come un’opera d’arte unica e di cercare di riadattarla.

 

 

FB: E la mostra che meno ti convince di tutte quelle?

FS: KAWS? Una mostra che non c’è nel volume. Comunque quella secondo me era una sfida contro se stesso. Tornando a Metamorfosi italiana tu l’hai vista immagino. Giusto? Quale fu la tua impressione?

FB: Fu un evento importante, la mostra fu forse la più solida intorno a questa idea oramai troppo obsoleta della moda, del design. Ebbe un grande riscontro. Era la metà degli anni Novanta. Ebbe un grossissimo impatto anche perché trainava il Made in Italy che in quel momento veniva cavalcato da tutti in Italia da un punto di vista commerciale. Era una mostra ufficiale, istituzionale della cosa italiana.

FS: Secondo te, Celant è stato più bravo a cogliere l’attimo ed esprimersi come catalizzatore di ciò che avveniva intorno a lui, oppure ha dimostrato una grande capacità di lavorare sugli archivi e di riportare una freschezza di lettura a eventi o aspetti che stavano nascosti?

 

 

FB: Credo che da una parte ci sia un aspetto ideologico suo, osservava la storia attraverso la sua ideologia di curatore e quindi la adattava alla sua visione. Si può parlare sia di freschezza sia di manipolazione della storia a seconda del proprio punto di vista. Credo che il suo grande merito non era quello di scrivere, non ho paura di dirlo, scriveva abbastanza male. Era farraginoso, un po’ troppo ridondante ma aveva secondo me queste grandissime antenne, queste grandi intuizioni sociali e culturali. Se si torna all’Arte Povera magari sembra un po’ scontato, ma in quel momento lui capì che se gli artisti si univano, la società cambiava. Annullare la propria individualità per poter traghettare in un momento in cui l’artista individuale aveva poche chance. Insomma io ricordo negli anni Settanta chi voleva fare l’artista non lo poteva fare. Tutto era una cosa collettiva, anti-borghese, Celant intuì una grandissima cosa. Poi di fatto l’Arte Povera rimane l’unico movimento che ha scardinato i canoni dell’arte italiana. Molto di più del futurismo.

 

FS: Una seconda rottura che ha cambiato le sorti dell’arte nel secolo scorso. Unire forzando l’unione, loro malgrado.

FB: Quella è stata la sua forza, quella di convincere personalità opposte e diverse sotto un cappello. Infatti è riuscito a tenerli insieme per cinque anni poi nel 1972 mi pare ha deciso di lasciarli andare. Diciamo che se posso usare un termine, era un cinico visionario.

FS: Sì quello che non ha avuto Breton, che non ha mai chiuso l’esperienza che doveva essere chiusa. Parlando di scrittura, il volume sottolinea (cito Celant e leggo la quarta di copertina): “Per cinquant’anni ho praticato diverse scritture: la teorica per la scrittura di saggi, l’editoriale per la costruzione di libri e di cataloghi, infine l’espositiva. Questo libro cerca di portare l’attenzione su questo tipo di scrittura”. Quindi una scrittura spaziale, non di parole ma di opere nello spazio, forse quello che gli veniva meglio.

FB: Gli veniva assolutamente meglio, devo dire che è geniale. Quello che fa è dividere la sua scrittura che è per altro unica, in tre parti e tira fuori quella che gli veniva meglio. L’aspetto eccezionale, ma anche molto snervante, era quello di essere impermeabile a qualsiasi critica o attacco. Rigirare sempre a suo vantaggio questa sua debolezza del non sapere scrivere. Quella dei saggi ma anche di teorico, lasciando fuori Appunti per una guerriglia che rimane un testo sintetico ed eccezionale per quegli anni ma anche per oggi. Dopo di quello non è che ne ha fatti tantissimi.

 

FS: Anche perché è quasi tutto sull’enunciato. È un titolo talmente straordinario.

FB: Che poi credo che tra tanti punti forti, la sua debolezza è stata quella di non accettare la sua grande forza che era quella di fare mostre. Ora nel libro sembra essere riscoperta all’ultimo momento. Lui ci teneva ad essere considerato un buon scrittore ma non lo era.

FS: E quindi la sua capacità di rigirare le situazioni. Più statista che politico.

FB: Era un grande statista. Ma se uno volesse divertirsi potrebbe farlo rileggendo i trafiletti di recensioni che scriveva per l’Espresso. Sono eccezionali perché sono costantemente incomprensibili. Un assaggio formulaico.

FS: Poi scorrendo gli anni, questo libro sottolinea l’interesse per gli accostamenti come Arts & Foods o in mostre di arte e moda o arte e architettura, arte e design. Secondo te c’è qualcosa che non ha fatto?

 

 

FB: Lui è stato anche quello che ha dato la definizione di architettura radicale. È stato lui ad avere intuito anche in questo caso una tendenza negli anni Sessanta a Firenze. Era davvero bravo a sintetizzare. Poi devo dire che nella mostra Arts & Foods iniziava già a perdere colpi. Era una mostra datata.

FS: Un grande catalizzatore del momento ma al tempo stesso un grande appassionato di archivi, di storicità.

FB: Guardare la storia e andare a ripercorrerla. Lui mi ricorda Il Numero Uno di Alan Ford nel senso che le mostre che fa le fa più da testimone, le fa come se lui fosse stato lì, ne dà una lettura da testimone, inconfutabile da parte dello spettatore. Queste sono qualità.

FS: Questa costante ricerca di abbracciare tutto. Da questo punto di vista forse fu più uno storico dell’arte che un curatore. Lui scavava dentro. 

 

FB: E da questo forse la sua resistenza a mettere su When Attitudes Become Form. Se vogliamo essere maligni secondo me per due motivi: da un lato voleva seguire il suo criterio filologico e creare una struttura storicamente solida. Dall’altro veniva chiesto a lui di fare una cosa che a lui gli veniva il singhiozzo: la mostra dell’unico forse curatore che gli stava sopra di una spanna, Szeemann. Forse a Celant è mancato l’aspetto magico e visionario di Szeemann anche se lui partecipò con altri artisti al catalogo della celebre mostra. In quel caso Celant era un po’ un ambasciatore dell’Italia. Gli fu chiesto di celebrare l’unico, anche se erano amici, che gli stava sopra. Celant ne ha fatte di mostre eccezionali ma gliene manca una: la grande mostra sull’Arte Povera L’ha inclusa nella storia italiana, ma le mostre sull’Arte Povera sembra che non voleva che si facessero.

FS: Secondo te era un modo per non chiudere un cerchio? Storicizzare è un po uccidere. 

FB: Quello che non ho mai capito è come mai il MoMA o il Pompidou non gli chiesero mai di fare una mostra sull’Arte Povera. Se lui ha una colpa è quella di non averla mai fatta o di non averla mai fatta fare.

 

FS: C’è un Celant pre e post Prada?

FB: No, devo dire che lui ha mantenuto una continuità. Sicuramente con Prada ha avuto l’opportunità di fare progetti molto ambiziosi, anche per la libertà intellettuale che ha avuto.

FS: Comunque questa sua reticenza alla selezione… Se guardo alle scelte di Celant non sono in grado di dire ciò da cui si allontanava. Sembrava che trovasse la lettura di tutto.

FB: Io sono un curatore, non sono assolutamente uno studioso, sono più un decoratore. Ricordo benissimo però quando feci Italics, lui scrisse una recensione in cui mi massacrava. Una mostra che lui non avrebbe mai fatto e che non voleva che si facesse.

FS: Una corrente artistica rispetto alla quale lui ha preso le distanze? Eccetto la Transavanguardia che per ovvi motivi non era nelle sue corde.

FB: Non era nelle sue corde, però alla Biennale del 1997 lui mette Cucchi. Mette anche Spalletti. Lui non selezionava, non polemizzava, a parte con le recensioni. Lui incorniciava la critica dentro un metodo che lui non riteneva adeguato. Lui non selezionava ma ignorava. In questo stava il grande statista ma anche il grande politico perché una delle caratteristiche del politico sono quelle di ignorare tutto quello che lo disturba o intralcia il percorso.

 

FS: Sembrava maniacale come ricerca, come metodo.

FB: Assolutamente. E’ stato anche molto acuto e cauto. Celant una cosa che non ha mai avuto sono stati i figli. Non ha tirato fuori una generazione di curatori, ne è uscita una generazione di adoratori, non di allievi. Da me è venuta fuori una generazione perché mi sono affidato a tanti colleghi di altre generazioni. Ho dato la possibilità più per pigrizia.

FS: Questo volume è una sorta di enciclopedia. Riesci a pensare a un’altra figura che meriterebbe un libro del genere?

FB: No, non mi viene in mente nessuno. Credo che Carolyn Christov-Bakargiev farà qualcosa di simile. Celant veniva chiamato professore. Szeemann veniva chiamato visionario, non voleva essere professore. Loro sono le due figure che hanno due volumi che possono essere capaci di raccontare. Szeemann era curioso in modo quasi maniacale e Celant vorace in modo altrettanto maniacale.