David Hockney

David Hockney, la gioia “eye-fuck” di un dandy mai stanco di guardare

Luca Fiore

La creatività inesausta dell’ottuagenario artista inglese, che è stato nella Pop art “al massimo cinque minuti”, che ha cambiato stili e interessi tenendo come stella polare Picasso. La partita ingaggiata con la fotografia, e con il senso dei volti

A settembre del 2019 il Wall Street Journal Magazine ha pubblicato un lungo articolo intervista su David Hockney, accompagnato da alcune immagini del giovane fotografo di moda Jamie Hawkesworth. Uno di questi scatti ritrae la mano che il pittore tiene in tasca. Metà dell’inquadratura è occupata dal verde pisello del cardigan. L’altra metà dalla trama del gessato dei pantaloni. Sotto il cardigan appare la linea bianca del polsino di una polo. È l’abbigliamento ricercato e sgargiante a cui Hockney ci ha abituato fin dagli anni Sessanta che lo rende riconoscibile insieme agli immancabili occhiali dalla montatura tonda. Ma l’obiettivo di Hawkesworth, in realtà, indugia soprattutto sulle macchie di colore azzurro sul polsino del maglione e sui pantaloni del pittore. È un particolare intimo, che dice quanto quello che potrebbe essere scambiato per il vezzo da dandy impertinente, sia forse qualcosa di più. La mise che Hockney esibisce in società si rivela, in realtà, come la divisa da lavoro dell’artista. Per Hockney, humor e autoironia sono qualcosa che scendono negli interstizi della vita: appaiono nei suoi quadri, ma anche nella scelta delle giacche o del colore delle bretelle. Si direbbe che per il maggior pittore inglese vivente (anche se vissuto soprattutto in California) l’arte, in fondo, sia un gioco totalizzante. Un gioco sacro.

 

Oggi, a 82 anni, Hockney continua a dimostrare una vivacità creativa che non sembra subire battute d’arresto. Allergico alla ripetizione, continua a dipingere con l’energia di un giovane appena uscito dall’accademia, sempre in cerca di nuovi soggetti e nuove vie di espressione. Si tratta di una personalità inclassificabile e, nonostante sia spesso associato alla generazione della Pop Art britannica degli anni Sessanta, come ha detto l’amico gallerista John Kasmin che lo conobbe in quegli anni: Hockney è stato un artista Pop per al massimo cinque minuti. Il suo interesse, infatti, non si è mai focalizzato innanzitutto sul tema della cultura popolare di massa. La sua ossessione sono il disegno e la pittura, intesi come forme di conoscenza – verrebbe da dire “amorosa” – delle cose e delle persone.

 

C’è un aspetto, però, che Hockney ha condiviso con la generazione di artisti che iniziavano in quegli anni: considerava la pittura astratta al capolinea. “C’est l’art du mouchoir” (è arte del fazzoletto), dice citando Francis Bacon che, a sua volta, citava Alberto Giacometti quando paragonava certe opere a stracci coperti di macchie e sbavature. Come racconta nel libro di conversazioni, scritto con Martin Gayford, “A Bigger Message”, allora c’era Clement Greenberg che diceva: “Oggi è impossibile dipingere un volto”. Se fosse come dice Greenberg, spiega il pittore, “tutte le immagini del mondo che potremmo ottenere sarebbero fotografie. Ma sarebbe troppo noioso”.

 

Quello di Hockney con la fotografia è un rapporto di odio-amore. Se si dà troppo retta alle fotografie, spiega, si riduce la realtà alla sua misura geometrica. “Mentre osservo il suo viso, appare piuttosto grande nel mio campo visivo”, spiega a Gayford: “Mi sto concentrando su di lei e non su altre cose. Ma se mi sposto per un attimo a guardare laggiù, il suo viso diventa più piccolo. Non è forse quello che sta accadendo? Non è l’occhio una parte della mente? Se si guarda la pittura egizia, il faraone è tre volte più grande di tutto il resto”. Il pittore osserva che quando l’archeologo misura la lunghezza della mummia del faraone si accorge che non era più grande di qualsiasi altro suddito. “Ma in realtà era più grande – nella mente degli Egizi. In un certo senso la pittura egizia era affidabile, ma non in termini geometrici”.

 

È una ricerca dell’autenticità non fotografica che avvicina Hockney ai grandi del Novecento, primo fra tutti il suo artista feticcio Pablo Picasso, al quale ha dedicato interventi e saggi critici. “Picasso ha guardato più volti che qualsiasi altro, ma non li guardava come un fotografo. Pensava a come li avrebbe disegnati. La maggioranza della gente non guarda un viso a lungo, tende subito a guardare dall’altra parte. Ma se si dipinge un ritratto, si deve guardare il viso”, spiega l’artista: “Rembrandt mise più forza su un viso di qualsiasi altro pittore prima di lui, perché vedeva di più. Era una questione di occhio – e di cuore”. È l’esperienza della visione che si fa sempre più acuta e penetrante, in cui conoscenza e piacere sono intrecciati e inseparabili. Spiega ancora a Gayford: “I soldati in Vietnam parlavano di eye-fuck (penetrazione visiva): erano consapevoli del fatto che dovevano fissare lo sguardo sul minimo tremito di una foglia in un qualsiasi punto dell’orizzonte. Forse era l’unico momento della loro vita in cui guardavano con una simile intensità. Mi piace l’espressione eye-fuck: è un modo di dire che l’occhio prova enorme piacere”. E aggiunge: “Scrivendo sulla gioia di vedere, Van Gogh si serve della parola che in francese significa anche ‘orgasmo’”.

 

Ciò su cui si concentra la ricerca del pittore inglese, almeno dagli anni Ottanta in poi, è la modalità di riprodurre la profondità, che è l’anima della pittura di paesaggio. Prova a non sottomettersi alla dittatura della prospettiva geometrica su cui, a suo dire, si era impigrita la pittura accademica. È un percorso che attraversa con l’uso dei collage fotografici e delle grandi tele dedicate al Gran Canyon. Ma è ormai già settantenne che, tornato nel suo Yorkshire per assistere alla madre malata, Hockney sembra approdare a quello che è forse il suo periodo più fecondo e sorprendente. Dopo anni passati in California, dove le stagioni dell’anno si assomigliano tutte, si trova nel Nord dell’Inghilterra all’inizio della primavera e nota, con lo stupore del bambino, l’energia di rinascita che si manifesta nella campagna attorno Bradford, il suo paese natale. È l’inizio di un percorso che lo porta, nel 2012, a riempire le sale della Royal Academy con opere tutte realizzate nei due anni precedenti. Una prova di forza creativa che riesce a rivaleggiare con la straordinaria retrospettiva che, in contemporanea, Damien Hirst – allora quarantasettenne e uomo di punta della nuova arte britannica – presentava alla Tate Modern. Un derby tutto inglese. Ma, in quel momento, Hockney dà l’impressione di avere più vitalità, più inventiva, più spregiudicatezza. Una furia bulimica che non si penserebbe di trovare in un signore che, ormai, cammina con il bastone.

 

Certo, a sostenere tanta energia ci sono le basi granitiche di un talento straordinario per il disegno. Una mano fatata, che tocca i suoi vertici nei ritratti mozzafiato, che hanno la puntualità spietata di un Ingres. Tecnica che riesce a convivere con una sorta di innocenza infantile e che può permettersi di fare a meno delle impalcature concettuali, oggi necessarie per non farsi schiacciare dal peso della grande pittura del passato.

Oggi, mentre la sua mostra “David Hockney: Drawing from Life” resta chiusa a causa del Covid-19 alla National Portrait Gallery di Londra, si trova nel suo rifugio di campagna in Normandia, dove ha trovato casa un paio di anni fa, anche perché “qui nei ristoranti si può ancora fumare”. Si è fatto vivo, in piena pandemia, donando a The Art Newspaper uno dei suoi disegni su iPad che rappresenta degli allegri fiori gialli. Insieme al disegno, c’era un messaggio che, forse, è più di un semplice “andrà tutto bene”, ma un vero manifesto di poetica: “Do remember they can’t cancel the spring”, ricordiamoci che non possono cancellare la primavera.

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