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Se Apple vuole diventare “strillone e tv”

Ugo Bertone

La Mela inaugura l'offerta giornalistica e gli editori annusano l'inganno

Grazie ma non fa per noi. Alla grande festa di lunedì allo Steve Jobs Theater di San Francisco brillavano per la loro assenza gli editori del New York Times e del Washington Post, una mancanza non da poco per quella che promette di essere l’edicola del XXI secolo: un chiosco virtuale da cui accedere ai giornali ed ai magazine preferiti, naturalmente in tempo reale via iPhone, iPad o a altri congegni elettronico. Difficile per l’abbonato sostenere che “non trovo nulla da leggere”, vista l’offerta a disposizione, oggi solo per gli abbonati dagli Stati Uniti (presto seguiranno Australia e Canada, poi toccherà all’Europa): più di 300 giornali a disposizione, da riviste come “Marie Claire” o “National Geographic” fino a quotidiani come il “Los Angeles Times” o il canadese “The Star”, il tutto per soli 9,90 dollari al mese, una sciocchezza se si pensa che si può accedere ad un catalogo quotidiano da 8 mila dollari.

 

Ma nell’elenco non figurano né il “New York Times” che il “Washington Post” che hanno deciso di disertare l’offerta della Mela che pure, sulla carta, promette di essere un toccasana per i guai dell’editoria. Almeno se si pensa che già oggi, nella sua forma gratuita, Apple News raggiunge nel mondo quasi un miliardo e mezzo di utenti. Pensate all’opportunità che vi offriamo per allargare il vostro business, hanno sostenuto i Big della Mela. Certo, già oggi il Times conta su un milione abbondante di abbonati digitali (a 15 dollari al mese), un livello a cui il Post, dopo l’energica cura di Jeff Besos, si sta avvicinando. Ma l’accelerazione garantita da Apple è un’altra cosa. Argomento che non ha convinto Mark Thompson, il direttore generale del New York Times. “Sono molto perplesso – ha dichiarato il manager a Reuters – di fronte alla prospettiva di permettere al lettore di arrivare ai nostri contenuto attraverso una piattaforma terza. Mi spaventa l’idea che si possano mescolare i contenuti, trasformando l’informazione in una sorta di minestrone, al punto da smarrire l’origine delle notizie”. Il rischio è che agli occhi del pubblico, la fonte prima dell’informazione finisca con il diventare la stessa Apple e non i giornali. “Pensate a quel che sta succedendo con Netflix – aggiunge – Fossi un produttore di Hollywood o un network mi sarei guardati bene dal cedere i contenuti a Netflix, per quanto loro abbiamo pagato bene fin dall’inizio. Ma è stata un’operazione suicida: oggi Netflix, che può investire nove miliardi per realizzare i propri contenuti, è padrona del suo destino e di quello di una parte di Hollywood”.

 

La stessa Netflix, del resto, ha deciso di non collaborare con il servizio di streaming creato dalla Mela, troppo ricca e potente per non generare sospetti. E nemmeno troppo generosa on i potenziali vassalli nel corso della sua marcia imperiale. Tim Cook, l’erede di Steve Jobs, ha proposto agli editori di fare a metà sugli abbonamenti venduti via App Store, contro il 30 per cento attuale. Un premio esagerato a fronte dell’indiscutibile aumento dell’audience. Ma, più ancora delle cifre, a dividere i due grandi editori da Apple è la proprietà dei dati. L’impero di Cupertino, al proposito, non intende fare sconti: tutte le informazioni sugli utenti, dalla carta di credito utilizzata ai servizi richiesti, resteranno a disposizione di Apple, una gigantesca miniera di dati che il colosso dell’iPhone, accampando motivazioni di privacy, non intende condividere con nessuno. Anche perché il modello di business del colosso digitale, di nuovo la società numero uno al mondo per valore di Borsa, sta lentamente evolvendo. Certo, l’iPhone resta la gallina dalle uova d’oro, con i suoi 900 milioni di apparecchi venduti. Ma la concorrenza dei gruppi cinesi morde, sia sulle vendite che sui margini, perché i prodotti più costosi crescono a un tasso inferiore né gli ultimi dati, iWatch o apparecchi per la salute possono compensare la frenata del prodotto leader che oggi rappresenta i due terzi delle entrate. Di qui la svolta strategica: convincere il mercato e, di riflesso, gli analisti, che Apple sta evolvendo da società dell’hardware a colosso dei servizi. Anche per questo da due trimestri il colosso ha cessato di annunciare il numero di pezzi venduto, “un dato ormai poco significativo”, secondo Luca Maestri, il direttore finanziario romano che gestisce l’impressionante potenza di fuoco finanziario del gruppo. “Quel che conta – ha aggiunto di recente lo stesso ceo Tim Cook – è il numero di apparecchi attivi sul sistema applicativo Ios: nel corso degli ultimi dodici mesi è cresciuto di oltre cento milioni di utenti, un primato storico”.

 

E’ questa la vera ragione della svolta del supermarket virtuale di Apple. A differenza di Amazon – che ha virato dal controllo dell’e-commerce alla conquista dello shopping fisico, conquistando i supermercati – la Mela, delusa dal flop dei tentativi di crescere nella mobilità, punta a fidelizzare i consumatori dell’entertainment e dell’informazione facendo leva sulla capacità finanziaria. Cook non ha lesinato gli sforzi per trasformare la presentazione dei nuovi servizi, non solo per l’editoria ma anche streaming digitale e servizi di pagamento gestiti assieme a Goldman Sachs, piuttosto che la piattaforma dei giochi elettronici. Da tutte queste attività, secondo gli obiettivi comunicati agli analisti, Apple conta di registrare un fatturato di 50 miliardi di dollari entro il 2020. Obiettivi ambizioso ma possibile se si pensa che già oggi, grazie alla leadership nella musica, il gruppo incassa 37,5 miliardi di dollari nei servizi. E dopo la musica Apple le vorrebbe suonare anche agli editori.

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