Katherine Mansfield

Il Figlio

La solitudine di Katherine Mansfield nel suo diario e nella sua letteratura

Giacomo Giossi

"La vita della vita. Diari 1913-1923" (Donzelli) è un libro molto personale nel quale la scrittrice neozelandese si confronta con la solitudine e l'essenza della vita. La scrittura diventa un viaggio in una stanza mobile, in un continuo movimento tra protezione e fuga

Essere sola davanti alla vita ha per Katherine Mansfield un doppio significato. Da un lato la solitudine, la durezza di un’esistenza che richiede un esercizio continuo su se stessi: mantenersi saldi e lucidi. Non perdere mai di vista il senso e lo sguardo sul mondo. Portare con sé accoglienza e critica in un connubio inedito e radicale che Mansfield farà suo e di cui farà letteratura: lei prima moderna tra i moderni. Dall’altro lato le infinite possibilità di dare corpo alle proprie passioni e curiosità, un’esplorazione che parte dalle ragioni di se stessa e diviene lotta e confronto con il mondo. Le pagine di diario di Katherine Mansfield selezionate nel volume a cura di Sara De Simone, "La vita della vita. Diari 1913-1923" (Donzelli) vivono di una luce solare mattutina perenne. La vita della vita prende corpo nel risveglio, nel ritorno continuo alle cose del mondo. Un viaggio che lei compie quotidianamente tramite la scrittura. Mansfield scrive principalmente racconti, un genere che sa esplorare in chiave contemporanea innovandolo e portandolo a forme inedite. Le pagine di diario sono pienamente letterarie, dense di un discorso interiore che qui intreccia le questioni del quotidiano: elaborazione e materia grezza si trovano sullo stesso piano. Non esiste distinzione in Mansfield perché la letteratura più che una “stanza tutta per sé”, è prima ancora una carrozza in continuo movimento: “In questa stanza. Quasi prima che l’abbia scritta, leggerò questa frase da un’altra stanza: così è la vita. Valigie fatte ancora una volta. Parto per Londra. Sarò mai di nuovo una donna felice? Je ne pense pas, je ne veux pas. Oh essere a New York! Cerca di capirmi, non mi posso fermare: è questa la tortura”. Un movimento che è di protezione e di fuga. Sola davanti alla vita, ma anche priva di un luogo di nascita, di una patria d’appartenenza

Nata a Wellington in Nuova Zelanda, Mansfield cresce in una famiglia agiata e si trasferisce a Londra per proseguire i suoi studi al Queen’s College. Da quel viaggio non tornerà mai  indietro, attraversando l’Europa e ritornando in Nuova Zelanda solo per scappare da una vita provinciale e opprimente. Una perdita necessaria e dolorosa della patria che coincide con uno scontro  durissimo con il padre e poi con la madre che la obbligherà a un soggiorno in sanatorio in quanto “isterica”. Soggiorno durante in quale si spoglierà di ogni eredità. Restare sola, ma restare unica, perdere famiglia e patria non avendole mai pienamente avute e mai sentite come appartenenza affettiva. Mansfield vive il dolore della perdita al punto che diviene uno degli elementi fondanti della sua letteratura: perdita e assenza. Incinta fuori dal matrimonio, perde il figlio per gli stenti e le fatiche a cui è sottoposta durante il soggiorno obbligato in clinica. Perde il padre e la madre che mai l’hanno capita, pretendendo invece - violentemente - una rappresentazione che non può rispondere alla splendida vitalità e genialità di Katherine. Perdere così ciò che non si è mai potuto avere, perdere ciò che non si è mai potuto toccare realmente. La realtà diviene una forza emotiva scatenante, che libera la letteratura. Ad esempio la scoperta dei racconti di Anton ČCechov. “ČCechov si sbagliava quando pensava che se avesse avuto più tempo avrebbe scritto in maniera più estesa, descrivendo la pioggia, la levatrice e il dottore che prendevano il tè. La verità è che in un racconto si possono mettere solo alcune cose; c’è sempre un sacrificio da fare. Si debbono lasciare fuori cose che si conoscono e si vorrebbe tanto utilizzare. Perché? Non ne ho idea, ma è così”. Katherine Mansfield di tempo ne ha pochissimo, muore a 34 anni piegata dalla tubercolosi, lasciando però un’opera unica e anticipatrice che non ci lascerà mai sole e soli.

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