Il Figlio

Generazione Z e altre importanti sciocchezze

Raffaella Silvestri

Il libro "Doveva essere il nostro momento" è il primo vero romanzo italiano sui millennial, la generazione che doveva essere tutto ma che alla fine non è stata niente

Oggi è in atto una specie di battaglia fra nonni e nipoti, con i giovani che protestano (per il clima, per la società della performance, per la mancanza di lavoro) e i boomer che dicono di non fare i piagnoni. In mezzo, il niente, anche se in mezzo ci sarebbero gli adulti, che chiamiamo ancora ragazzi. Sono stati i millennial, ma tra poco li chiameremo boomer, parola senza nessun senso, senza nessuna aderenza alla storia, solo un modo qualunque per dire: vecchi. Su questa generazione di mezzo, che doveva essere tutto (l’unica ad aver visto il mondo analogico ma essere cresciuta in quello digitalizzato) e che alla fine non è stata niente, tanto vittimismo e poca capacità di prendersi gli spazi (“sempre in attesa di una concessione dall’alto, di ricevere il permesso di qualcuno”), Eleonora C. Caruso scrive un romanzo sorprendente.

Siamo stufi di sentire parlare di millennial, di nostalgia degli anni ’90, quei tempi in cui ci venivano fatte grandi promesse – è orribile crescere nel relativo benessere e nella prospettiva di miglioramento per poi accorgersi, tardi o presto come il protagonista Leo, che non c’era neanche una chance – eppure questa particolare storia abbiamo voglia di sentirla, dalle prime pagine ti avvolge con il calore dei libri ben scritti. Qualcuno ha detto che Caruso è una scrittrice che ama i lettori, ed è vero, una di quelle autrici che ti mettono in mano un libro di 388 pagine e ti dicono: divertiti. I dialoghi – sia interni sia effettivi – sono perfetti, esilaranti ma non apertamente comici. Lo humor è dato dalla distanza che l’autrice mette fra il suo alter ego Leo – un trentaquattrenne pieno di potenziali mai espressi, di origini operaie, un provinciale approdato in una Milano che odia, probabilmente perché dorme sul divano della sala di una casa condivisa, vive senza porte, in una sala che è anche la cucina. La storia ha poco a che fare con la vita di Leo a Milano e argina anche le sue lamentele millennial, attraverso l’accostamento all’altro grande personaggio, Cloro, la content creator precoce, esponente della cosiddetta Generazione Z.

Vittima dell’ambizione della madre, Cleo ha cominciato a dodici anni ad apparire nei video di YouTube, quel content che non era ancora influencing, solo un modo per intrattenere feticisti, curiosi, primi internauti e vari maniaci. La struttura del libro è il tradizionale road trip: Leo e Cloro risalgono lo stivale dalla Sicilia al Piemonte, senza soldi – uno perché non ne ha (“Leo non aveva mai nutrito l’illusione che un giorno sarebbe stato ricco e di successo, ma neanche così, porca troia”), l’altra perché il capo della setta da cui si stanno allontanando le ha trattenuto soldi e documenti, non prima di aver sfruttato la sua immagine per avere regali (#gift) per sostenere il baglio, che ospita la setta (“un divano di Maisons du Monde”). Tutte le sette sono assurde, e quella di Zan sulla carta è davvero poco credibile, ma man mano che la storia procede – al piano del viaggio si intersecano i flashback di vita nella setta e di storia della vita dei due protagonisti – si comprendono meglio le ragioni per cui degli adulti di oltre trent’anni vogliano mettersi in una masseria a guardare Sanremo del ‘97 e le repliche di Ducks Tale (con i ciucci di plastica colorata come moneta).

Le premesse garantiscono l’intrattenimento nella lettura – è il classico libro da cui potrebbe nascere della fanfiction (tra l’altro l’autrice insegna un laboratorio a tema alla scuola Holden, maneggiare i fili della trama è una sua forza). Ma è anche un libro profondo, struggente a tratti, forse il primo vero libro italiano sui millennial, riuscito perché forte della distanza data, finalmente, dall’età adulta. 

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