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Millennial e Gen Z sono ragazzi d'oro. Nel senso che spendono tanto

Stefano Cingolani

È anche grazie ai più giovani e al loro dinamismo che si spiega il rimbalzo dei consumi dopo la pandemia. Ed è la politica che deve stare al passo. Indagine sui numeri che alimentano l’ottimismo

No, non sono tutti simili a certi marcantoni di un metro e novanta che si fanno difendere dalla mammina contro bestiali tifosi inferociti. Non sono tutti enfants gâtés, così li chiamano i francesi, o bamboccioni come disse con un guizzo di sincerità il compianto Tommaso Padoa-Schioppa. No, è anche grazie a loro che la grande pandemia non è diventata una grande recessione, è grazie ai loro consumi e al loro smanettare se la rivoluzione tecnologica non smette di trasformare la nostra vita. Bisogna guardare senza paraocchi ai Millennial e alla stessa Generazione Z che li sta soppiantando. Dunque, “Il mondo salvato dai ragazzini” come il libro di poesie che Elsa Morante pubblicò nel troppo mitizzato Sessantotto? Da allora si è estinta la generazione della rinascita, nata prima del 1946, sono passati i Baby Boomer contestatori, la Generazione X, quella dell’edonismo, s’arrabatta per la pensione, siamo tutti invecchiati in questa Europa dell’ultimo uomo per il quale s’affannano i politici a caccia delle “pantere grigie”. Ma proprio per questo ci parlano ancora alcuni versi tratti dalla “Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti”.  

Sappiàtelo, o padri meschini I(nfelici) M(olti) d’ogni paese:
se ancora il corpo offeso dei viventi resiste
in questo vostro mondo di sangue e di denti
è perché passano sempre quelle poche voci illese
con le loro allegre notizie.

E di allegre notizie vogliamo parlare innanzitutto. Notizie che abbiamo preso da uno studio della McKinsey del quale ha scritto l’Economist, due degli Infelici Molti che vogliono indagare sui Felici Pochi. La Morante si rivolterà nella tomba, ma cominciamo proprio da quel che lei detestava pur praticandolo senza falsi pudori: il consumo. Ha plasmato la società del secondo Novecento ed è pur sempre la prima, più visibile e immediata manifestazione dei comportamenti individuali e collettivi, riguarda non solo i quattrini che si hanno in tasca, ma valori, preferenze, umori, le forze della psiche prima ancora che quelle del capitale. Per capire quanto siano rilevanti le scelte dei giovani, ricordiamo che l’Unione europea ospita 125 milioni di persone tra i 10 e i 34 anni, negli Stati Uniti ce ne sono 110 milioni che nel 2021 hanno speso duemila settecento miliardi di dollari. Insomma stiamo parlando pur sempre di un terzo della popolazione e del prodotto lordo. Cosa e soprattutto come consumano i giovani d’oggi? E’ vero che sono “impoveriti, senza lavoro, psicologicamente devastati dal Covid-19 e incapaci di vedere un futuro” (così li raccontano nel circo politico-mediatico)?

La McKinsey sottolinea che i due grandi choc dell’ultimo decennio, la crisi finanziaria prima, la pandemia poi, hanno diffuso anche tra i giovani uno stato d’animo inquieto, la maggior parte di loro è convinta che non riuscirà ad avere una pensione, questo è vero soprattutto negli Stati Uniti, ma anche la protezione universale europea non è più garantita e da tempo. Tuttavia, anche perché “del doman non v’è certezza”, la gioventù tende a vivere ancor più nel presente. E ciò può spiegare in parte il rimbalzo nei consumi a mano a mano che lo spettro del Covid-19 ha cominciato a svanire. Ma c’è un fattore diciamo così tecnologico il cui impatto è determinante: la rivoluzione digitale nella quale si sono affacciati i Millennial e dove è immersa completamente la Generazione Z che compra online, comunica, legge, agisce, s’incontra, si fidanza, copula, insomma fa tutto attraverso la rete. L’e-commerce tanto a lungo demonizzato ha salvato il commercio al dettaglio ed è pura propaganda sostenere che abbia avvantaggiato solo Amazon. Certo, Jeff Bezos ci è arrivato per primo su larga scala (con i libri non con i profumi, anche lui è un tardo Baby Boomer essendo nato nel 1964) e ha saputo creare un colosso globale, ma ormai anche il negozio all’angolo ha il suo sito e vende online a meno che non sia gestito dagli ultimi epigoni della “generazione silente”. 

La differenza tra i più giovani e i loro fratelli maggiori è che questi ultimi amano lo sfoggio e tendono a sprecare mentre gli altri sono rimasti minimalisti e persino austeri. Secondo la McKinsey tuttavia una distinzione tra Millennial formiche e Generazione Z composta da cicale è impropria se si va a guardare che cosa e quanto si compra. Tra gli oggetti d’uso quotidiano prevalgono le scarpe o meglio le sneaker e queste preferenze, alquanto discutibili per i genitori, hanno influenzato l’industria e la moda. Ormai anche i migliori stilisti, i più sofisticati, espongono in vetrina sgargianti calzature di gomma e plastica. La velocità dell’e-commerce che diffonde urbi et orbi una miriade di gusti e scelte individuali, e non tollera ritardi nemmeno nelle consegne, ha plasmato sia la manifattura, sempre più organizzata su misura, sia i servizi, si pensi al boom della logistica e delle consegne a domicilio. Ciò conferma che la priorità della domanda non è una invenzione degli esecrati libbberisti (con due, tre o anche più b). Certo le scelte sono condizionate da un insieme di fattori, tra essi quelli meramente mercantili, determinati dall’offerta attraverso i persuasori occulti, sono importanti, ma spesso non determinanti, nemmeno quando si parla di intrattenimento, che occupa uno spazio sempre maggiore nella vita di una generazione più affluente di quelle precedenti. I social media offrono strumenti prima impensabili per diversificare le scelte, rispondendo a esigenze e richieste nuove. La tv tradizionale, verticistica e rigida, è stata soppiantata da un’offerta pluralista, flessibile e orizzontale che rappresenta (e a sua volta alimenta) un modo di pensare e di vivere dei giovani esso stesso pluralista fino all’individualismo, flessibile fino alla dispersione (ciò vale però più per i Millennial), orizzontale fino a trasformare lo scambio di informazioni in un vivere vite non loro. Il metaverso potrebbe far compiere un nuovo salto in avanti? Chissà, è ancora da vedere. Mentre l’intelligenza artificiale può già oggi esaltare la creatività, lasciando alle macchine l’applicazione, come è avvenuto a un livello inferiore con l’uso di attrezzature ancora “stupide”. Tutto questo appassiona e ad un tempo inquieta i più giovani i quali manifestano un approccio critico, ma meno negativo degli adulti. 
E’ un quadro troppo anglo-americano? Lo studio della società di consulenza strategica intende offrire una visione estesa all’Europa e alla parte più dinamica dell’Asia, inclusa la Cina. Le differenze culturali permangono. Alcune ricerche comparate, stimolate dall’Unione europea, mettono in luce i tratti comuni al di là di differenze determinate dalle tradizioni, dalla storia, dal passato che continua a plasmare, ovviamente, il presente e il futuro. Basta interrogare ventenni italiani che vivono nel Nord Europa. Il legame con la famiglia d’origine e la voglia di metter su una famiglia propria è una distinzione importante, tuttavia paesi come la Svezia che hanno sperimentato il declino demografico con uno o due decenni d’anticipo, sono tornati a crescere, con nuclei familiari dove il numero ideale di figli è tre o quattro. La Francia, che da tempo ha introdotto incentivi fiscali per la prole numerosa, ha visto aumentare la popolazione mentre si è ridotto tra i giovani il rifiuto di mettere al mondo bambini. I figli, per gli italiani che ne fanno pochi, hanno un valore superiore rispetto ai tedeschi dove gli indicatori economici e sociali – dai dati sull’occupazione a quelli sull’alfabetismo – dovrebbero suscitare maggiore ottimismo. Dunque il tasso di natalità non va necessariamente di pari passo con lo sviluppo e nemmeno con il livello di reddito o con i servizi per l’infanzia. 

I ragazzi della Generazione Z – se si guarda alla qualità e al modo di essere acquirenti, fruitori di servizi o studenti – hanno conservato una selettività che apparteneva ai Millennial. Il consumo non spiazza il risparmio, ritenuto anzi un valore. Attento uso dell’energia, riciclaggio dei materiali, scambio di oggetti usati (si pensi al vero boom negli abiti attraverso applicazioni ad hoc), prestiti all’interno della “tribù” allargata invece che acquisti individuali, car sharing, utilizzo dei mezzi pubblici, convivenza forzata quando il costo degli alloggi si rivela insostenibile, ma anche come scelta per così dire comunitaria che rappresenta la voglia di “stare insieme”, una differenza importante tra le nuove generazioni e l’individualismo prevalente nei loro predecessori. Oggi si cerca di condividere non solo l’auto, ma la stessa prospettiva di vita. Una tendenza accentuata nell’Europa dello stato sociale dove predomina una cultura tutto sommato “collettivista”, diffusa, però, anche nel mondo anglo-americano. 

Non che manchino le contraddizioni. Si pensi allo stesso commercio veloce, quello del qui e ora: ha costi che spesso non vengono messi sulla bilancia o non si è disposti a sopportare, non  tanto in termini di prezzi, ma di impatto generale. Isabelle Allen della società di consulenza Kpmg, citata dall’Economist, prende ad esempio il cibo vegetariano: “Il beneficio ambientale di mangiare piante rispetto alla carne può essere velocemente annullato se il cibo è consegnato in piccoli lotti trasportati su motorini inquinanti”. D’accordo, ma non cavilliamo, a ogni azione corrisponde una reazione per lo più eguale e contraria. Si potrebbe aggiungere che questo stile di vita è limitato a una minoranza di giovani, ma occorre riconoscere quello che un occhio annebbiato dal senso comune spesso non vede: le nuove generazioni sono in media più ricche delle precedenti le quali stanno trasmettendo loro i patrimoni accumulati nei decenni del boom. L’eredità ha un peso sempre maggiore per i Millennial e ancor più per la Generazione Z. Hanno tante case e poco lavoro? E’ vero solo in parte. La disoccupazione giovanile (intesa tra i 15 e i 24 anni) è scesa ovunque dal 2014 al 2020. Ha avuto una ovvia impennata con la pandemia, poi è tornata a calare. Le curve elaborate dall’Ocse lo mostrano chiaramente. L’idea corrente che il Covid-19 abbia distrutto le già scarse prospettive è sbagliata, intanto perché scarsa non è l’offerta, ma la manodopera disponibile. Certo, in paesi come Italia e Spagna i giovani senza lavoro sono ancora troppi, c’è un gap che non è stato colmato, questo dipende però dalle mancate (o monche) riforme. “I ragazzi stanno bene dopotutto”, titola il Financial Times.

Una ricerca del British Council sui giovani italiani tra i 18 e i 30 anni (Next Generation Italy Report, 2020) sottolinea che il lavoro è la preoccupazione principale per il 28 per cento del campione. C’è da chiedersi se in fondo non sia sempre stato così quando si lascia la scuola. Un sondaggio Eurispes di prima della pandemia su 2.200 persone in Italia, Germania, Polonia e Russia, ha trovato che per tutti è prioritario il lavoro, importante per il 92,4 per cento degli italiani, l’89,1 dei russi, l’87,5 dei polacchi e il 70,7 dei tedeschi. In Italia un numero molto più alto di ragazzi aspira a un lavoro dipendente: il 63 per cento rispetto al 25,8 della Polonia, il 20,1 della Germania e al 12,7 della Russia. Il 65 per cento dei giovani italiani ritiene di avere voce in capitolo nel determinare il proprio futuro; Il 77 si dichiara soddisfatto della formazione ricevuta; il 40 degli intervistati aveva pianificato di vivere all’estero o era aperto all’idea di farlo, un altro 7 per cento l’aveva già fatto; il 40 per cento del campione scelto dal British Council ha indicato la crescita personale come uno dei due motivi principali per andare potenzialmente via dall’Italia, il 31 per cento l’apprendimento di una lingua straniera, mentre il 22 ha parlato di opportunità di studio. Non fuga di cervelli, allora, ma volontà di espandere esperienze e conoscenze. Con il lockdown è emerso lo smart working apprezzato dai giovani, non senza critiche sul rischio di isolamento nella propria cellula familiare. Su questo non sono state trovate differenze con i coetanei britannici. I valori tradizionali sono in calo ovunque, sostiene l’Eurispes, compresa la religione (32,8 per cento in Italia, 36,9 in Russia, 36,1 in Polonia e in 35,6 Germania). Per gli italiani la salute conta più del successo e la politica interessa al 61,3 per cento, un po’ meno ai tedeschi (55 per cento), solo a un terzo circa di polacchi e russi. 

Ma cosa offre ai giovani la politica italiana ricca di retorica negativa e povera di decisioni positive? Lamenti, piagnistei, invettive sono inversamente proporzionali ai provvedimenti presi o anche solo in cantiere. C’è poco o nulla per i ragazzi nel programma di un governo che intende durare cinque anni e proclama di voler pensare strategicamente, nel lungo periodo (parole di Giorgia Meloni), ma si occupa di categorie sociali del secolo scorso. Massimiliano Valerii, direttore del Censis, nel suo libro “La notte di un’epoca. Contro la società del rancore” (Ponte alle Grazie, 2019) ha lanciato una provocazione: far contare di più i giovani anche differenziando il diritto di voto in funzione delle aspettative di vita. Una “modesta proposta” in stile Jonathan Swift, eppure “una giovane generazione che abbia peso politico è una possibilità di riscatto per il paese”. Valerii resta convinto che l’ultima generazione stia peggio delle precedenti e il Censis ha condotto ricerche che confermano questa impressione. Certo, eredità e rendita pesano, ma vengono consumate rapidamente se non c’è abbastanza lavoro. A suo parere è ormai svanita l’illusione che le condizioni economiche miglioreranno generazione dopo generazione. Tuttavia i giovani d’oggi sono i più formati, i più istruiti, i più aperti di sempre alla globalità, parlano le lingue e hanno moltissime competenze. Guai alla nostalgia di un mondo che non esiste più e anche i giovani debbono recuperare la cultura del rischio che si è smarrita in questi anni, sottolinea Valerii. La sua ricetta è semplice ed enorme allo stesso tempo: “Sogno, speranza e fantasia sono grimaldelli fondamentali per costruire una società diversa. Non c’è futuro se non c’è sogno”. Negli anni 70 gli under 35 erano la metà della popolazione, oggi sono un terzo. Ma possono diventare la locomotiva dello sviluppo, non il vagone di coda. Se è così, ci salveranno davvero i ragazzini.

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