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il figlio

Il canto a tratti sognante di Dacia Maraini di un'infanzia lontana, in un campo di prigionia giapponese

Giacomo Giossi

Il nuovo libro della scrittrice, Vita mia, va oltre il libro di memorie per ragionare sul concetto di tempo quale spazio aperto e non solo costretto all’interno di una cronologia

Dacia Maraini affronta per la prima volta in un suo libro, Vita mia (Rizzoli) gli anni di reclusione trascorsi in un campo di concentramento giapponese che fu allestito per la famiglia Maraini e altri diciotto antifascisti che si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e di conseguenza di appoggiarne alleati, tra cui il Giappone. I Maraini fino ad allora avevano vissuto a Kyoto perfettamente integrati, con la piccola Dacia in grado di esprimersi anche nel dialetto locale e Fosco stimato professore di Antropologia all’università. Vita mia va oltre il libro di memorie per ragionare sul concetto di tempo quale spazio aperto e non solo costretto all’interno di una cronologia. Dacia Maraini dà corpo alla lezione appresa dal padre sul tempo e sul suo trascorrere: “Noi diamo un nome a questo mistero, lo dividiamo e lo calcoliamo, lo attribuiamo a un Dio creatore, ma le nostre dolci spiegazioni esprimono un sentimento, nessuna certezza» mormorava mio padre”. 

Vita mia è infatti un testo ibrido che intreccia memoria e analisi in un ricordo a tratti struggente di una famiglia e in particolare di una madre e di un padre decisamente fuori dall’ordinario. Si deve alla perseveranza della madre, Topazia Alliata, se è possibile oggi ripercorre i giorni che segnarono la permanenza della famiglia nel campo. Fu infatti Topazia ad annotare in un diario, fino a quando ebbe a disposizione carta e una matita, gli avvenimenti principali e le condizioni di vita a cui erano sottoposti. Un diario poi pubblicato successivamente dalla sorella di Dacia, la storica Toni Maraini. 

Il libro è così il ritratto di un tempo duro e complicato, segnato dalla fame, ma anche da una forma indomita di curiosità sempre stimolata da un padre e una madre che riescono, seppure negli stenti della prigionia, a offrire alle figlie un modo, non solo per sopportare, ma anche per non perdere mai l’ingenua tenerezza dell’infanzia. Gli odori divengono così il primo richiamo per Dacia. Odori che si intrecciano con il tempo e il suo variare. La ricerca del cibo diviene l’occupazione primaria, ma sempre in una forma di rispetto di sé a cui i genitori richiamano sempre le figlie. Fino al gesto clamoroso del padre che si mozza di netto la falange di un dito per pretendere il giusto rispetto dai poliziotti giapponesi: “Con un gesto rapido e freddo, ha afferrato l’accetta che stava per terra, ha appoggiato una mano sul ceppo su cui tagliavamo la legna e con un colpo deciso si è reciso un dito urlando: ‘Noi italiani non siamo né vigliacchi né traditori!’ e ha gettato il dito addosso a Kasuya sporcando la sua divisa immacolata di sangue”. In cambio la famiglia otterrà una capra da cui prendere il latte per Dacia e le sue sorelle. La vita al campo durerà circa due anni durante i quali Dacia comprenderà il valore di una comunità. Seppure tra infinite difficoltà i prigionieri italiani condividono quel poco che hanno e mettendosi al servizio degli altri. Ma il cibo non basta per sopravvivere, occorre anche la poesia. Fosco Maraini, padre attento e protettivo, ma anche estremamente silenzioso, nella poesia sfoga la propria fatica e libera i propri sentimenti. Poesia e senso di comunità formano così gli elementi principali della sensibilità di Dacia Maraini che dà forma a una poetica originale in cui il testo diviene non un semplice punto di approdo, ma un laboratorio aperto in continua evoluzione. Le storie private e comuni e poi la storia politica e sociale che insieme convivono sullo stesso piano, agendo all’interno del medesimo discorso. Vita mia è il canto a tratti sognante di un’infanzia lontana, ma ancora vividamente presente grazie ai segni e agli indizi lasciati dal tempo che Dacia Maraini ha saputo ritrovare e far rivivere con cura e affetto.

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