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Il figlio

La gravidanza diligente, le scale su e giù, il sorriso largo e nebuloso. E poi?

Lorena Spampinato

Quando avremo messo a dormire le parole, non tremeranno più. Resterà una vibrazione, un suono impercettibile nell’aria. E’ il mio primo regalo per te: un silenzio piccolissimo. Un racconto

Mi sono accorta di esserti madre un giorno, a ventisette anni, un mese prima che tu nascessi. Fino a lì erano stati mesi nebulosi, segnati da un’allegria ingenua, leggerissima. Li avevo passati nel segno della resistenza: al tabacco; alla stanchezza; alla tristezza scema, da commedia. L’impressione di minaccia, il timore, non mi avevano toccata. Anzi, continuavo a dirmi: va tutto bene, benissimo. Lo dicevo anche agli altri, a chi chiedeva rispondevo in un sorriso largo: benissimo. 

Intanto mi infliggevo orari scomodi, lavoravo moltissimo, sommavo impegni a impegni. Dicevo: sì, eccomi, ci sono, quale disturbo, certo che posso. Faccio io. Tanto ho il sonno fragile, non dormo. C’è solo da essere svegli e riempirsi di faccende: da sempre, la qualità dell’essere vivi. 

 

Dicevo di essere energica. Forte, muscoli tesi. Le scale su e giù. Vestivo abiti larghi, la pancia nascosta. Mai una volta ho saltato una fila. Aspettavo compiaciuta il mio turno: mani in tasca, gambe dritte. Dentro al petto un’effervescenza: non mi avrà la fatica, non mi avranno i patimenti, le lagne. In nessun altro momento della vita ho pensato così ardentemente: è tutto facile. 

Mi sono imposta una gravidanza diligente, grande attenzione per i cibi vietati. Pensavo che se avessi fatto tutto bene non ne avrei sentito il peso. Disprezzavo le altre madri: ne trovavo insopportabili i discorsi. La conta minuziosa dei giorni, i centimetri del feto. Il bambino è grande una noce, un pugno, una verza. Com’è misera la vita misurata con le cose spicciole. Non mi avranno, dicevo, le piccolezze.

Nel racconto della mia nascita c’è una bambina fortunata. Nata con la camicia, dice mio padre. Destinata a mete facili, senza i tempi lunghi dei pellegrinaggi. Infatti la bambina corre e corre, non inciampa. Dice: voglio vedere il mondo. Voglio vivere qui e qui. Obbedisce alla sorte: va tutto bene, benissimo. Lo ripete anche quando torna a casa, in Sicilia. Per gli altri è una sconfitta, mentre lei dice: è qui che voglio stare. Dove c’è una casa, dove c’è l’amore. Non lo pensa davvero: in testa intravede l’inciampo, la caduta. Eccomi, pensavo, in questa terra che ho amato e che ho odiato. Che a lungo ho sospettato incapace di progetti, di sogni liberi. Quand’ero lontana premeva dentro come un macigno, una gastrite. Adesso immaginavo che mi si aprisse sotto ai piedi, che svelasse i buchi, le crepe dentro alle case da cui penetra acqua. 

 

Eccomi di nuovo qui, figlia ingrata, senza memoria. Tradisco persino i piatti amatissimi, messaggeri d’amore: melenzane, ricotta. Ho disgusto dei sapori forti. Dico: non posso. La mia placenta guastata dalla fame. Ho preso quattro chili in otto mesi – ne prenderò cinque in totale. Va tutto bene, benissimo. 
Mi impedisco di star ferma. Quando mi prende la voglia, accendo musica allegra. Canto. 

Nel cielo si aprono bombardamenti, è tutta una festa. Sfila la Santa e sale lo schiamazzo. E’ febbraio e stai arrivando, figlio mio. Senti: la banda, il carro in processione. Preghiere gridate al vento. Anche questa lo è: perdonami, figlio mio. Ti parlo per la prima volta e so dirti solo scontentezze. Ma tu tappa le orecchie. Non cedere ai vecchi trucchi, alle parole sciocche. Può darsi che ci sorprenda la tenerezza. Che tu, che io – vicini – prendiamo un gran lenzuolo e addormentiamo i timori. Ninna nanna, ninna oh. Quando avremo messo a dormire le parole, non tremeranno più. Resterà una vibrazione, un suono impercettibile nell’aria. E’ il mio primo regalo per te: un silenzio piccolissimo. Ti sarà vicino quando si spegnerà la festa, si spegneranno i rumori. Quando per la prima volta non dirò – non dirai: va tutto bene, benissimo.

Questo è un racconto per il Figlio. E’ in uscita il 14 marzo “Piccole cose connesse al peccato” (Feltrinelli) 
 

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