Serena e Venus Williams durante gli Us Open del 2013 (da Wikipedia)

Il Figlio

Serena e Venus

Francesca Milano

Il padre lanciava palline sgonfie, loro imparavano a stravincere per amore

Quando ancora i figli non sanno leggere, ci sono genitori che scrivono per loro un diario, appuntano emozioni, resocontano i primi passi, le prime parole. Se lo leggeranno da grandi, ci troveranno dentro l’amore. Quando le sue due figlie non sanno ancora leggere, Richard Williams scrive un diario di 78 pagine. Niente ricordi, nessuna dichiarazione d’amore: 78 pagine di lezioni sul tennis e su come diventare campionesse. Ma il signor Williams direbbe che in realtà quel diario è la più potente lettera d’amore che lui potesse scrivere per le sue bambine, e che quello che ha fatto per loro - allenarle, allenarle e ancora allenarle - è il più grande regalo che potesse dare a Venus e Serena. Poco importa se non avranno amici, non avranno giocattoli, non avranno fidanzati, non avranno un’infanzia, Natali, vacanze: avranno Wimbledon, avranno il Roland Garros, avranno gli Us Open, avranno tutto, soldi, fama, rispetto. Avranno quello che il padre - un uomo nero - non ha avuto. Che vuoi che sia perdere l’adolescenza se in cambio puoi diventare la regina del tennis?

 

Da che parte (della rete) stai? Dalla parte delle due bambine che impugnano racchette di seconda mano, o dalla parte del padre che scaglia contro di loro palline sgonfie perché non ha soldi per comprarne di nuove ma dice che è meglio così perché impareranno a colpire più forte?

 

Questa “partita” - descritta da Giorgia Mecca nel libro Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd), l’abbiamo vista decine di volte: su quel campo si sono affrontati già Andre Agassi e suo padre Mike, Camila Giorgi e suo padre Sergio e chissà quanti altri ancora, nei campi dei circoli di tutto il mondo. Padri che amano troppo, ma a modo loro. Padri che trasformano i propri figli in campioni, costi quel che costi. Tra “vincenti” e “felici” hanno scelto il primo come destino dei figli.

 

Il padre di Venus e Serena lo chiama “the Williams way”: è un progetto che inizia ben prima della nascita delle figlie. Loro non esistono ancora, ma il padre ha già deciso che saranno le regine davanti a cui l’America bianca dovrà inchinarsi. Lo decide l’11 giugno del 1978, mentre la tivù trasmette la finale del Roland Garros. Sullo schermo si sfidano Mima Jausovec e Virginia Ruzici, in sovraimpressione si legge il montepremi riservato alla vincitrice: 40mila dollari. E’ allora che Richard dice alla moglie Oracene: “Dobbiamo fare due figli. E pregare che siano femmine”. Preghiera esaudita.

 

A quelle due bambine insegna il tennis, l’ambizione e la sete di vittoria. Anche quando l’avversario da battere è tua sorella. Venus e Serena si sono sfidate per tutta la vita, infinite volte in più rispetto alle 31 partite ufficiali disputate sui campi di tutto il mondo. Si sono contese la prima posizione nella classifica ATP, i flash dei fotografi a bordocampo ma soprattutto l’amore del padre.

 

La rabbia di Richard si trasforma nella grinta delle figlie, che combattono per una coppa, ma anche contro il razzismo e contro la discriminazione tra uomini e donne in termini di montepremi. E vincono. Il tennis smette di essere uno sport per bianchi e le tenniste smettono di guadagnare meno dei maschi.

 

Visti i risultati, ecco il dubbio: non è che ha avuto ragione il signor Williams? Non è che costringendole a diventare due campionesse ha evitato che diventassero due sbandate del ghetto di Los Angelels? Non è che spronarle sempre a fare meglio ha evitato loro la mediocrità?

 

“Un giorno capiranno”, dice Richard Williams mentre guida il pulmino Volkswagen bianco e rosso che ogni giorno, due volte al giorno, porta le sue figlie sul campo di Compton. Qualcosa di simile ha detto, anni prima, Mike Agassi nel suo libro Indoor, una risposta al servizio piazzato con Open dal figlio: “La gente dice che mi sono spinto troppo oltre con i miei figli, che ho esagerato. E volete sapere una cosa? Hanno ragione. Ma è vera anche un’altra cosa, e cioè che ne è valsa la pena”.