Il Figlio

La spinta

Gaia Manzini

Una madre guarda la figlia trasformarsi sotto i suoi occhi a soli dieci anni. Un romanzo di corpi, di muscoli, di fibre e membra

"Sirene. Ho sempre pensato che sembrassero sirene al contrario, lei e le sue compagne, con le gambe nude e il torso ricoperto di squame.” Lunghe e sottili, ragazzine che ondeggiano senza peso come fossero immerse nell’acqua; bambine che si allenano bendate, che fanno scivolare la palla sul corpo fino al dorso delle mani, che la tengono sulla punta delle dita; tre capovolte all’indietro, una in avanti. Funi, cerchi, clavette, corpi che si tendono, che fanno piroette, assumono la forma di un’omega; che se volessero potrebbero annodarsi, e resistono a tutto: al sacrificio, alla fatica fisica, alle delusioni.

 

Antonella guarda la figlia Teodora trasformarsi sotto i suoi occhi a soli dieci anni: età in cui le bambine iniziano a sentire la spinta verso il futuro e possono scegliere se tormentarsi per colpa dei primissimi sbalzi ormonali oppure inseguire un sogno, con l’inflessibilità che hanno soltanto le menti acerbe. Inflessibilità degli ideali, elasticità fluida dei corpi. Perché Teodora, ora che si sono trasferiti da Milano in una cittadina di mare, ha già capito cosa vuole: sarà una campionessa di ginnastica ritmica. Vincerà ogni gara, resisterà a tutto e arriverà in nazionale. Non è la proiezione ingenua di una bambina; tutti intorno a lei non fanno che ripeterlo: è perfetta per quello sport, la ritmica è il suo destino. E’ Bravissima, come recita il titolo del romanzo di Paola Moretti edito da 66thand2nd.

 

Un romanzo di corpi, di muscoli, di fibre e membra, costruito nel sapiente tendersi tra due poli contrapposti: una madre che conosce e ama sua figlia nel suo essere non perfetta né intera – ancora bisognosa di una forma – e una bambina che impone la sua volontà e il rigore della disciplina. Una ragazzina già proiettata dentro l’ossessivo individualismo di uno sport in cui quello che davvero importa è la propria performance, il proprio risultato. Il culto della propria persona, l’obiettivo della perfezione.

 

E così il ritmo dei movimenti ginnici diventa quello della narrazione che tocca le corde dei rapporti tra madri e figlie, pieni di contraddizioni, di luci e di ombre. “Siamo bizzarre noi che vorremmo così disperatamente avere accesso ai loro pensieri. Sono bizzarre loro che così caparbiamente ci sfuggono, ci ingannano, usano il loro spropositato amore verso di noi.” Madri e figlie che ereditano magnetismi e repulsioni. Perché nel romanzo c’è anche Teresa, madre di Antonella e nonna di Teodora, donna altera e un tempo mondana, che si annoia con la figlia e ha una sintonia perfetta con la nipote. E poi tutt’intorno c’è l’aria salmastra che si appiccica alla pelle anche se il cielo è sgombro; c’è la sabbia ovunque che si sposta, si raggruppa e si disperde; c’è il mare e le sue onde che scantonano pigre, vanno avanti e indietro, si incontrano e si allontanano come madri e figlie, in continuazione. Toccata e fuga, incontri e separazioni senza tregua, un esercizio di ginnastica ritmica.

 

Paola Moretti costruisce una tensione crescente. Ogni scena, ogni progressione di Teodora è come se celasse un pericolo, la possibilità di un inciampo, il presentimento di qualcosa in agguato come il ragno che cammina sulle mani di Antonella o come il quartiere dove si trova la palestra degli allenamenti: quell’asfalto chiaro percorso da crepe che sembra il deserto boliviano, la distesa di sale di Uyuni nella sua abbacinante desolazione, ma anche la pagina bianca dove iniziare a scrivere un percorso, una vita. Ma chi è a scriverlo?

 

La tensione è il dubbio che si dispiega come un nastro nella mente di una madre; il dubbio su quale sia il proprio ruolo; se si debba incoraggiare il talento a ogni costo oppure porre dei limiti; se si possa imporre o meno la propria volontà, sapendo che quello su cui si è impuntata nostra figlia è un errore, una strada senza uscita, senza un vero futuro, se non la breve intensissima sensazione di essere onnipotenti, o quasi;  grandi anche se piccole. Quel ruolo di noi madri che talvolta è difficile da accettare e sta tutto nel farsi da parte. Noi “corpi rigidi e imponenti, noi persone d’intralcio” che impariamo a essere silenziose e appartate, osservatrici dei corpi sinuosi delle nostre sirene. Almeno fin quando non arriverà la vita a decidere per tutti.
 

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