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Il Foglio sportivo

Nel nome di papà Richard. La storia di Venus e Serena Williams

Moris Gasparri

Sacrificio e furore sul campo da tennis. Il piano folle e riuscito del signor Williams, sconfiggere i bianchi con le figlie

È stato detto che nel nostro paese la letteratura sportiva sarà il genere letterario degli anni Venti (copyright Jvan Sica). Si può dubitare del valore assoluto dell’affermazione, perché la letteratura “aggettivata” corre sempre il rischio del complesso d’inferiorità, come se quello “sportiva” agisse da marchio d’infamia, genere minore capace di interessare un pubblico “minore”. Leggendo Nel nome del padre, il libro di Giorgia Mecca dedicato all’epopea tennistica delle sorelle Williams uscito per 66thand2nd lo scorso 6 maggio, ogni dubbio in proposito è però fugato. Siamo in presenza di un libro di tennis che parla anche a un pubblico di non appassionati di tennis, e soprattutto, di non appassionati di sport tout court. Un passaggio reso possibile dalla destrezza e dall’abilità dell’autrice nel maneggiare le parole, in un talento per la scrittura percepibile da ogni pagina, che, nel caso di Giorgia Mecca, i lettori del Foglio conoscono e apprezzano da anni. Nel nome del padre è infatti prima di ogni altra cosa un libro ben scritto, che coinvolge e cattura dalla prima all’ultima riga, composto di tante piccole storie nella storia, all’apparenza brevi, ma dense, che scavano nelle pieghe di vicende umane che possiedono una forza capace di andare ben oltre il campo da gioco. In questo tratto stilistico si riconosce la lezione di due fonti d’ispirazioni dichiarate dell’autrice, due grandi narratrici dello sport contemporaneo come Emanuela Audisio e Joyce Carol Oates.

 

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Le vicende della famiglia Williams raccontate nel libro sono immagini contemporanee di una vicenda più ampia, che comincia nella Grecia arcaica di quasi tre millenni fa, in cui prende forma quel rito per cui ci si confronta per uccidersi, ma in senso simbolico, in cui la morte non è reale come quella della battaglia, ma in cui la sconfitta non lascia in pace chi perde: lo sport. Qual è il sentimento alla base di ogni competizione sportiva? L’invidia, dirà un attento interprete dello spirito agonistico greco di nome Friedrich Nietzsche, non la benevolenza o la fratellanza. L’invidia per chi è più forte, che fa nasce il desiderio di emulazione e superamento. Alle latitudini europee questa durezza feroce suona incompresa, sport è una parola risciacquata dagli inglesi nello spirito cavalleresco della competizione leale, dove tra i contendenti dovrebbe auspicabilmente prodursi armonia. Dove riappare il segno e l’eredità della Grecia antica? Negli Stati Uniti, patria del furore agonistico giovanile, della competizione, dell’ossessione, della volontà di potenza individuale. Il tennis è lo sport che più di ogni altro manifesta questi caratteri. Da un lato perché i suoi interpreti non possono aggrapparsi alla condivisione del rischio del fallimento con dei propri simili, come accade negli sport di squadra. Dall’altro perché la durata dei match, l’infinita ripetizione di sfide e incontri, la costante lotta mentale con gli avversari e con se stessi rendono questo sport un esercizio di auto-agonismo, un agonismo esteriore e corporeo quanto interiore, per questo motivo materia d’ispirazione per la grande letteratura contemporanea, a partire da David Foster Wallace, anche lui scrittore e tennista come nel caso dell’autrice. Sono questi tratti ad animare il respiro del libro, ma nella storia al suo centro si aggiunge un dramma che evoca atmosfere shakespeariane: l’invidia scintilla dello spirito agonistico esplode all’interno del consorzio umano che dovrebbe scongiurarne l’esistenza, che dovrebbe fornire riparo alle angosce dei figli nel conforto dei padri e delle madri: la famiglia. Gli atleti sono soli nel loro percorso, ma hanno la famiglia come protezione. Qui, al contrario, è la famiglia che origina la tensione. È infatti l’invidia di Serena nei confronti della sorella Venus che crea i presupposti di un dominio sportivo che la porterà a vincere ben 23 titoli del Grande Slam in carriera, record assoluto nell’era open. Invidia di cui Mecca ricostruisce ogni segno infantile, e in cui l’iniziale inferiorità, dolorosamente patita e subita, lascia progressivamente il posto al dominio. La vita di Venus Williams è una vita offerta in sacrificio all’invidia della sorella.

   

Ma come si arriva allo scatenarsi del furore agonistico e dell’invidia all’interno della famiglia Williams? Le vicende del libro ruotano attorno a un altro tema di fondo, complementare a quelli fin qui elencati: il rapporto tra agonismo e ossessione psichiatrica del padre di Venus e Serena, il signor Richard. La sua mania di grandezza e il suo delirio ossessionato sono paragonabili a quelli dei grandi personaggi cinematografici del regista tedesco Werner Herzog. A differenza del titanismo di Aguirre, che finisce in tragedia, o a quello di Fitzcarraldo, che trova un compimento dimezzato, quello di Richard Williams trova invece perfetta realizzazione. Uno solo il suo obiettivo incrollabile: prendersi la propria rivincita sui bianchi, del cui razzismo era stato vittima in gioventù, utilizzando i corpi neri delle proprie figlie e lo sport, assieme al golf, più lontano dalla condizione materiale e spirituale degli afroamericani, il tennis. Plasmare e modellare la più forte giocatrice del mondo, Venus, e nello stesso tempo la giocatrice che sarà destinata a superarla, Serena. Dare vita alla dinastia sportiva più forte dello sport femminile di sempre, sacrificando per questo scopo l’infanzia e l’adolescenza delle figlie, allenamento dopo allenamento, ogni giorno dell’anno, a ogni ora del giorno. Tutto questo secondo una pianificazione rigorosa, che parte da un fondamento di lucida follia: trasferire la famiglia dal tranquillo Michigan a Compton, sobborgo di Los Angeles, in ossequio all’ispirazione di Muhammad Ali, convinto che solo il ghetto può forgiare il desiderio di riscatto e il potere della volontà dei campioni, in perfetta consonanza con lo spirito americano dell’autorealizzazione personale. Compton non è un luogo qualunque, è una delle aree urbane più violente degli Stati Uniti, dove la morte è merce di scambio quotidiana, come accadde nel 2003 a Yetunde, sorella di Venus e Serena, e come accadde al padre di una stella dell’Nba cresciuta proprio a Compton, Kawhi Leonard, che nel suo “mutismo” malinconico porta ancora oggi i segni di questa violenza subita. Uno dei momenti più belli ed emozionanti del libro è il viaggio che l’autrice vi conduce per cercare tracce del passato, dei momenti di celebrazione eroica e di orgoglio comunitario di concittadine così illustri, e lo stupore nel constatare che Compton no, non serba memoria alcuna del passaggio delle sorelle più vincenti della storia mondiale del tennis.

   

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Se una delle leggi della storia vuole che gli uomini realizzano il contrario delle intenzioni che originano le loro azioni, al signor Williams riesce il contrario. Il suo progetto ha successo in tempi brevissimi. Nel 1999 a Miami troviamo già le sue figlie ad affrontarsi in finale nel centrale di un grande torneo. Nel 2002 sono numero uno e due del mondo. Tanto rapido il fuoco iniziale, quanto duraturo e longevo il proseguo, fatto di una teoria sterminata di successi, di sfide e controsfide che il libro racconta con una struttura non lineare, omaggio (voluto?) alla struttura temporale frantumata del postmodernismo americano, con il suo andare avanti e indietro che assomiglia alla carriera di Serena, costellata di continui ritorni in vetta.

   

Questo progetto di paranoia e desiderio agonistico ha un effetto detonante. La famiglia Williams è ingombrante per un mondo come quello del tennis, fatto di bianchi agiati che rispettano forme e codici di derivazione aristocratica. In particolar modo Serena è ingombrante, il suo servizio che supera i 200 km/h è ingombrante, le sue sfuriate sono ingombranti. Il suo gigantismo si manifesta anche nelle sconfitte: a lei appartiene la più grande sconfitta della storia del tennis, nonché una delle più grandi della storia dello sport. Nel settembre del 2017 è a pochi passi dalla possibilità di completare il percorso vittorioso nei quattro tornei del Grande Slam e di diventare immortale a “casa propria”, a Flushing Meadows. L’attesa di questo grande compimento fa addirittura superare nello share televisivo le sue partite rispetto a quelle del torneo maschile. E invece Serena perde contro una tennista mai approdata così in avanti in un torneo del Grande Slam, deludendo ogni aspettativa nel modo più fragoroso possibile (sempiterna gratitudine da parte degli appassionati sportivi italiani per aver acconsentito a una delle nostre poche affermazioni globali nella decade nera dell’agonismo sportivo tricolore).

   

Più di tutti, il suo corpo è ingombrante. Il libro di Mecca scava nel fondamento materiale dell’agonismo: il corpo e la sua esibizione. Nel caso di Serena, il corpo muscoloso di una donna nera, in costante lotta per accettarsi ed essere accettata, che subisce atti conclamati di razzismo (a questo tema la penna di Mecca presta grande attenzione a più riprese nel libro) e che trasforma la sua pelle come strumento di reazione, rivoluzionando lo stile e i codici estetici del tennis femminile, “sabotando” le regole del classicismo e delle mise eleganti con completi shock dai colori sempre diversi, in un caleidoscopio di moda resistente che nel libro è raccontato con estremo puntiglio. Il libro è dominato da Serena, tutto viene risucchiato da Serena, anche il padre Richard, che pure all’inizio della storia è il padrone incontrastato, a poco a poco diventa un’ombra, il suo ruolo diventa via via sempre più evanescente, e alla fine scompare. Il lettore si sente stritolato, e viene quasi da stabilire una fratellanza solidale con Patrick Mouratouglou, che arriva a sfidarla a brutto muso e solo così ne viene accettato come allenatore.

 

C’è però un capitolo che salva dal soffocamento ossessivo, un capitolo-oasi, quello su Venus. Figura “santa”, che si vota al sacrificio di sé, che abbandona l’egoismo iniziale, che si mette di lato rispetto al protagonismo della sorella e che diventa l’attivista capace di convincere gli organizzatori del maggiore torneo di tennis del mondo a stabilire l’eguaglianza dei premi, che diventerà effettiva nel 2007. In tutto questo defilarsi, quasi ci si dimentica che anche lei ha vinto 7 titoli dello Slam, tra cui 5 Wimbledon.
 

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