Bambini in un campo profughi dell'isola di Lesbo (Foto LaPresse)

Lettere da Lesbo/2

Marika Surace*

Edris spera di raggiungere suo fratello a Brema, ha 13 anni e ha viaggiato da solo dalla Siria

Edris ha la faccia da furbo e il giubbotto di pelle finta, marrone, con la zip tirata su a metà.

Aspetta con impazienza che io gli spieghi come funziona il ricongiungimento familiare, annuisce due volte e mi allunga i documenti. Leggo la data di nascita: 2004. Lo guardo, le guance rotonde da bambino, gli occhi neri fissi sul modulo su cui annoto i suoi dati. “Figuriamoci se hai 16 anni!”, dico ad alta voce. L’interprete mi guarda ma non traduce. Gli dico di chiedergli se c’è un errore, se quella è davvero la sua età. Quando capisce che sto mettendo in dubbio la sua presunta adolescenza, mi guarda come se fossi scema. Si vede che pensa: “Ma sei un medico o un avvocato? Non lo vedi cosa c’è scritto lì?”. Insieme a lui c’è il suo amico Omid, che il ricongiungimento lo ha già ottenuto, partirà appena organizzeranno il suo trasferimento dalla Grecia all’Austria, dove vive suo padre. Omid si mette a ridere, gli strofina la mano sulla testa con confidenza fraterna, ma Edris si innervosisce, si agita sulla sedia di plastica, vuole essere preso sul serio. Che Edris ha solo 13 anni me lo dirà proprio Omid, rientrando poco dopo nel container che funziona come punto di assistenza legale e che mi fa da ufficio da circa un mese, all’esterno di Moria, sull’isola di Lesbo.

 

Avete presente Moria? Un pezzo di terra da cui sono stati strappati gli ulivi per far posto a una base militare ormai dismessa, su un’isola più vicina alla Turchia che alla Grecia. Oggi ci vivono più di ventimila migranti (il conto si perde facilmente), ed è Europa, sì, almeno sulla carta. Ventimila persone che a malapena vengono informate sui loro diritti, ed è per questo che sono qui insieme ad altri avvocati: rendere le procedure più semplici e accessibili, in modo che tutti comprendano le basi giuridiche della protezione internazionale.

 

Edris e Omid sono qui da soli, vivono con altri minori in una sezione separata del campo e in questo, almeno, sono stati fortunati: ci sono centinaia di ragazzini come loro che non hanno nemmeno una tenda, un sacco a pelo, un posto assegnato in cui andare a cercarli.

La parola più utilizzata da chi bussa alle porte dei container è “famiglia”. Perché molti, moltissimi, hanno qualcuno che il salto da quest’isola fino all’Europa vera, quella delle città, delle case che non sono tende numerate ma hanno mattoni e finestre, l’ha già fatto.

 

E allora si prova con Dublino, il regolamento, quello che tutti vogliono cambiare senza provarci davvero. Il sistema Dublino stabilisce, tra le altre cose, che ci si possa ricongiungere a un familiare e che sarà la nazione in cui si andrà a valutare la domanda d’asilo. Facendo un bel po’ di distinzioni, perché non tutti sono “famiglia”: il coniuge lo è, ma solo a determinate condizioni (provateci voi a dire a Fariba, che si è sposata sei mesi fa con Ahmed che l’aspetta in Svezia, che il suo matrimonio con l’abito bianco, che pare verniciato per quanto luccica, non è valido ai fini del ricongiungimento). I fratelli possono essere famiglia, a patto che siano l’unico parente adulto che si possa occupare del minore. E comunque ci vuole l’approvazione del Paese in cui si vuole andare. La legge, applicata in modo letterale e restrittivo, permette di dire a Fariba, a Edris, a Omid, chi è un loro familiare e chi invece no.

 

Le prove nel sistema Dublino

“E’ un Dublino?”, mi chiede la collega tedesca. Nel 2019 la Germania ha autorizzato più di diecimila ricongiungimenti. “Ora vediamo, speriamo che abbia tutti i documenti a posto”. Chi vuole accedere al sistema Dublino, ha un onere della prova che include tutto: così, tra stati di famiglia, contratti d’affitto e certificati di nascita, spuntano fotografie in posa col parente prescelto. “E’ mio fratello, guarda, mi vuole bene: posso andare da lui?”. I documenti che mi ha dato Edris dichiarano che ha 16 anni invece di 13: se li è fatti fare apposta prima di lasciare la Siria. Non è l’unico a provarci: se hai meno di 15 anni, della tua richiesta d’asilo si occupa un tutore. E questo per molti vuol dire rallentamenti, spiegazioni, meno autonomia.

Gli dico che dovremo scrivere la sua vera età, che è molto meglio così. Non è contento, ma si fida.

Per la legge Edris è un minore straniero non accompagnato. Che significa solo, vulnerabile, senza difesa se non la propria determinazione, che diventa facile incoscienza. Rileggo la sua scheda e penso che smetti di essere figlio quando decidi di partire, non importa l’età che hai. Smetti di essere figlio quando i genitori rimasti in Siria sono il passato e una vita bloccata tra le macerie: molto meglio andarsene e scegliere di diventare grandi. Così ora Edris non è più figlio ma fratello, perché d’ora in poi sarà quello più grande, che vive a Brema, a occuparsi di lui. E a permettergli di essere un bambino ancora per un po’.

 

*avvocato immigrazionista

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