Madre di lupo

Simonetta Sciandivasci

La storia di Jack London, istigato al pericolo e ai romanzi da quella strega stupenda di sua madre Flora

Quando ero piccola, svariati lustri fa, la vita non era facile e già non si potevano mangiare le fragole senza lavarle nell’amuchina – che schifo, piuttosto muoio di tifo – mia madre mi diceva che da grande sarei stata o scrittrice o assassina o “tutte e due le cose, temo”. Non escludo l’assassina (non si sa mai, può scappare, temo), e per scrittrice chiedo scusa, in quanto italiani dovreste sapere che ogni beetle è un Paul McCartney ’a mamma soja. Non sapevo mai come prenderla, a quel tempo non era certo il bonbon che è adesso, con le sue domeniche in chiesa e il buonumore del prepensionamento e il sollievo della menopausa e del marito senza prostata e una serie di fortunati eventi che le arrecano così tanto benessere che rilegge classici russi da mesi. Quando mi diceva che sarei diventata o scrittrice o assassina eravamo entrambe più giovani, molto incazzate, molto fraintese, decisamente più grasse e malvestite, e ancora a metà. Io, poi, ero a metà della metà, quindi massimamente influenzabile, e lei anziché trasmettermi solide realtà e spingermi verso l’avvocatura e la pacatezza, mi lasciava fare quello che mi pareva a patto che tornassi all’ora in cui diceva lei e quelle volte che chiacchieravamo aveva sempre un libro in grembo e chiudeva ogni conversazione con “un giorno queste cose le scriverai”, e “ma che cosa ti frega, tu hai i libri, no?”.

 

Quando io e mio padre non ci parlammo, per mesi (anni) perché io ero una testa di cazzo e reclamavo il mio sacrosanto diritto a fallire e non fare niente per bene ma tutto per male, mia madre gli diceva: “L’abbiamo cresciuta noi così. Falla fare”. Fare, per lei, era scrivere. Mio padre, naturalmente, illanguidiva nella proiezione della mia vita da barbona mentre io, spavalda, allacciavo relazioni improbabili con quarantenni che vivevano senza termosifone e mi dicevano cose entusiasmanti come “Ho altre sei donne, non essere gelosa, tutto questo un giorno ti varrà un paio di dottorati”. L’unica cosa che mi è valsa un paio di dottorati, invece, è stata mia madre. Lei che mi getta nel burrone e mi dice che è il solo modo di volare, ogni caduta lo è, è un volo che precipita; lei che mi dice vai a fallire; lei che mi dice scrivi e basta, ché come avvocato faresti schifo. Pensiamo e raccontiamo sempre le madri stampella, guida, sostegno, conforto, pace, focolare, coraggio, sopportazione, mitomania, suocere destinali che in un diagramma sulle responsabilità della stagnazione di questo paese occuperebbero una fetta dell’80 per cento. E invece ci sono madri repentaglio, madri romanzo, madri esoterismo. Come Flora Wellman, la madre di Jack London senza il quale non avremmo avuto Jack London e non perché lo mise al mondo, ma perché non smise mai, tutte le volte che fu necessario (decine, forse centinaia di volte) di ricordargli che lui era nato per scrivere e lei lo sapeva perché era una sensitiva e un’astrologa e lo aveva fatto insieme a un uomo molto studioso e molto bravo a scrivere, che però non aveva l’avventura e il fuoco come suo figlio.

 

Romana Petri ha raccontato, nel suo ultimo romanzo, “Figlio del lupo”, la vita di Jack London attraverso il distendersi e il ritrarsi del suo talento, e il modo in cui sua madre e alcune delle donne che amò lo aiutarono o lo costrinsero ad aspettare sempre la risacca, lo convinsero che era nato per fare romanzi, e viverne, per sposare la donna sbagliata e fare molte cose sbagliate che però gli consentissero di essere la stella danzante che era. Jack torna a casa, a diciassette anni, da mesi di caccia alle ostriche e sua madre gli dice bene, adesso scrivi; Jack vuole sposare una donna convenzionale e sua madre gli dice ma va là, scrivi; Jack pensa a guadagnare uno stipendio che garantisca la sopravvivenza e il decoro a tutta la famiglia e Flora consulta le carte e gli dice no, al massimo per un po' non mangiamo, ma scrivi; Jack abbandona l’università per la quale ha studiato talmente tanto al liceo da farsi cacciare perché con la sua intelligenza metteva a disagio gli altri alunni, e Flora gli dice chissenefrega, non serve la laurea per fare lo scrittore, avanti, scrivi. “Vuoi spalare carbone tutta la vita, ragazzo? Né io né tuo padre siamo amanti della disciplina, né sostenitori della fedeltà agli obblighi morali” e insomma licenziati e scrivi e non ti azzardare a smettere per far contenta quella scema che vuole che tu la mantenga. Avremmo tutti diritto a una madre Flora, che ci aiuti a scoprire quale luce fa brillare la nostra meteora. Perché non è vero che nasciamo con la tendenza all’avventura: nasciamo facendocela sotto, cercando riparo nelle convenzioni e nei fidanzati che ci dicono di stare calme e se non c’è una madre a dirci che quella robaccia non fa per noi, state certe che l’andremo a cercare e combatteremo per averla e pochi anni dopo pagheremo un avvocato per levarcela di torno. Ciao Flora, e grazie per Jack.

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