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12 anni, violentata

Ilaria Palomba

Per tutta la vita mia madre ha cercato di riparare allo svenimento di quella notte

Sono Ilaria Palomba, a dodici anni sono stata violentata da un ragazzo poco più grande di me. In Disturbi di luminosità (Gaffi) racconto quello che avviene nella mente di una donna abusata, lo sconquasso emozionale, la paura di innamorarsi, il desiderio di rivalsa, l’ambivalenza in ogni relazione. La figura della madre nel libro è un’ombra, appare e svanisce, detta legge e tace. Nella realtà dei fatti, la notte dell’abuso, ho scoperto qualcosa di molto importante su mia madre.

Sono tornata a casa all’una di notte con i pantaloni sporchi di sangue. Mia madre mi ha chiesto dove fossi stata ma qualcosa nel tremolio della voce tradiva un’epifania inconscia. Svenne.

 

E questo è il primo ricordo che ho della sua fragilità. Fu la prima volta in cui mi sentii tradita. Mia madre è sempre stata accogliente, presente, apprensiva al limite della fagocitazione. Quella volta il mio bisogno di essere accolta, coccolata, curata fu tradito dal suo dolore.

Posso dire di essere diventata adulta a dodici anni, nel momento in cui mi sono resa conto che mia madre potesse soffrire e che il dolore di mia madre fosse un freno per me, per la mia richiesta d’amore. Pensai: devo aiutarla, cosa le ho fatto, le ho fatto del male. Il pensiero nei giorni successivi fu quello di essere colpevole del dolore di mia madre, di essere sbagliata. Questo errore, che ero diventata, non si è tradotto poi in un tentativo di riparazione, tutt’altro. Probabilmente volevo punirla per non essersi dedicata al mio dolore in un momento così difficile. Oppure cercavo di non crescere, di non essere abbandonata a me stessa, perché in qualche modo camminare sulle proprie gambe è un abbandono. Ogni relazione feroce che ho avuto è stato un tentativo di mostrarmi fragile agli occhi di mia madre e nello stesso istante di fuggire dalla sua fagocitazione.

 

Massimo Recalcati nel suo saggio Le mani della madre mostra che esistono, tra gli altri, due tipi patologici di madre, la madre narcisista e la madre coccodrillo. La madre narcisista è concentrata su sé stessa e non permette al figlio il rispecchiamento nel mondo; la madre coccodrillo è colei che dimentica di essere donna, vive la maternità come esperienza totalizzante ed è per il figlio qualcosa di terribile, oscuro e tragico poiché può ucciderlo, fagocitandolo. Penso che nelle relazioni patologiche si alternino questi due modelli di madre, o almeno nella mente dei figli questa ambivalenza viene percepita come uno spaesamento. Da un lato ci si sente assillati, perseguitati, inglobati, dall’altro ignorati. Non esistono genitori perfetti, e la giusta misura tra la salvaguardia della propria intimità e la protezione del figlio non è per nulla facile da raggiungere. Lacan dice che l’amore della madre è amore per il nome del figlio, non è dunque un amore senza oggetto, ma è un amore che ha a che fare con il linguaggio, con il fatto di poter delimitare un campo e ridefinirlo. Il figlio ha il nome del desiderio della madre.

 

A tal proposito mi fa sempre sorridere il fatto che i miei genitori mi abbiano chiamata Ilaria, che significa allegra, e che io abbia trascorso la stragrande maggioranza del tempo a piangere. Ho ricordi ambivalenti del rapporto con mia madre in adolescenza. Credo di aver provato un odio feroce per lei, per la sua onnipresenza. Ricordo la sensazione di invasione fisica quando scoprii che aveva letto i miei diari. Fu una sensazione epidermica, come di un tessuto che cercava di soffocarmi. Ho sentito la mia intimità violata, i miei rapporti con gli altri manomessi.

 

Mia madre è sempre la madre di una ragazzina abusata. Mia madre è sempre la madre che ha visto sua figlia dodicenne rincasare sporca di sangue. Probabilmente per tutta la vita ha cercato di riparare allo svenimento di quella notte, all’assenza e alla disperazione nella quale inconsapevolmente mi consegnò quella notte. Ed è accaduto che, nel tentativo di riparare, abbia fatto più danni perché la sua presenza, la sua onnipresenza, nella mia vita è stata una gabbia. Adesso, però, percepisco mia madre come una creatura fragile e spaventata. Posso ambire alla sua vicinanza in quanto donna, non più in quanto protezione, salvataggio o utero in cui rientrare.

 

Con questa consapevolezza ricordo mia madre raccattare certi ragazzini della 167 di Canosa di Puglia, bambini con famiglie disgregate, con i genitori in carcere, ricordo mia madre farli salire nella sua Opel rossa e portarli a scuola con me. C’era un bambino che tutti disprezzavano, dicevano rubasse e non si lavasse molto. Anche i bidelli della scuola lo trattavano male, lo riempivano di sguardi mordaci e parole sgarbate. Un giorno gli dissero: fetente.

 

Ricordo le parole di mia madre allora: “Sabino è un poeta, e poveri voi che non riconoscete un poeta.”

Sabino una volta, aveva scritto:

La paura somiglia / a quando metti le mani / nell’acqua ghiacciata. / La paura somiglia / alla cucina spenta / di mia casa.

Ora so che mia madre è la donna che ha riconosciuto la Poesia.

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