Franz Kafka da bambino

Lettera ai padri

Pierluigi Battista

Pierluigi Battista contro l’autorità da libro Cuore. “Non siamo nemmeno diventati Kafka”

Cara Annalena, a chi rimpiange la figura perduta del padre autorevole e persino un po’ autoritario di una volta, severo, solido, massiccio, insomma di un Padre vero, mica come quelli molli e puerili di oggi, consiglierei la lettura empatica della Lettera al padre di Franz Kafka. E vedranno: l’unica cosa buona fatta dal padre di Kafka, con la fondamentale collaborazione della madre, è stata lo stesso Franz Kafka. Ma invece di ringraziare il destino che gli aveva dato un figlio geniale, il padre, anzi il Padre, si è messo a fare il persecutore della sua di gran lunga migliore prole. Glielo diceva la società, la cultura, la mentalità del tempo: l’autorevolezza paterna si costruisce attraverso un principio di supremazia e di distanza, e i figli devono sentirsi piccoli, schiacciati, anche un po’ sanamente oppressi. “Bastava la tua corposità a opprimermi”, scrive Kafka, quello geniale, e non il padre di quello geniale. E ancora, “tu grande, grosso e vigoroso” mentre io “uno scheletrino incespicante”. Molti di noi, figli maschi di padri autorevoli d’una volta, ci siamo sentiti proprio così, incespicanti, fragili, anzi gracili psicologicamente prima ancora che nel fisico, nello spirito se non nel corpo. Sicuri che la figura del Padre tanto rimpianta ci abbia fatto tutto questo bene? Non abbiamo avuto nemmeno la soddisfazione di diventare Franz Kafka. Vittime di uno stereotipo socialmente e culturalmente consacrato, abbiamo sofferto inutilmente. Siamo diventati grandi malgrado i nostri padri, non già, come si dice, grazie alla loro autorevole e intimidatoria potenza. Ribellarsi è stato giusto. Freud e le sue teorie sul parricidio simbolico sono state le nostre armi. Abbiamo cercato lavori molto ben remunerati per pagarci lo psicanalista, altro che grato riconoscimento del ruolo imprescindibile del Padre incarnazione del principio d’autorità.

 

Che poi la letteratura non ci ha nemmeno regalato molti esempi di magnifici padri capaci di essere fulgidi modelli di autoritarismo pedagogico. Se si legge la saga dei Buddenbrook di Thomas Mann si capisce perché ad Hanno, ultimo e malaticcio rampollo di quella famiglia severa e irrigidita nei suoi abiti severi, gli siano venuti i denti marci mentre l’autorevole dinastia industriale esalava i suoi ultimi respiri. Tornando in Italia, è difficile non appioppare al padre del piccolo Enrico nell’indimenticabile Cuore di Edmondo De Amicis una definizione aspra ma credo giusta: un cretino. Una macchina sputasentenze, un generatore automatico di banalità spacciate per autorevoli principi in grado di plasmare i piccoli nuovi italiani e insufflarli di senso di appartenenza nazionale. Mentre i compagni di scuola, il “gruppo dei pari” secondo la definizione classica della sociologia accademica, sono una comunità variegata di tipi umani interessanti, fino a coprire, da Franti a Garrone, tutta la gamma dei modelli comportamentali ancora in fieri, il padre si cristallizza nella figura del predicatore monotono, maestro di conformismo, che scambia l’autorevolezza con il grigiore delle mezze verità, che essendo mezze sono anche mezze menzogne. E quanti sbadigli quando parla il padre di Enrico nel suo panciotto inamidato. Ancora una volta: davvero dobbiamo rimpiangere quella figura lì, fustigarci perché siamo diventati deboli, poco convinti, portatori insani di certezze oramai incrinate, o forse spezzate? Davvero i nostri figli hanno bisogno di quello stereotipo per crescere?

 

Più passa il tempo, più si invecchia, e più cresce la mia ammirazione per un padre come quello interpretato da Tom Hanks in Era mio padre, di Sam Mendes. Un bandito, di una famiglia di fuorilegge, e che non aveva in serbo sentenze morali come il padre di Cuore, ma che in una fuga senza fine avvolge suo figlio con una coperta protettiva calda e rassicurante. Un padre presente, non nascosto dietro una nube minacciosa. Un padre sentimentale, che trasmette emozioni anziché senso di autorità. Forte ma di una forza che non ha bisogno di un codice che segnali distanza, disparità, freddezza, sentenziosità. Che poi il padre può essere anche simpaticamente debole e immerso nell’incertezza come Claudio Bisio ne Gli sdraiati di Francesca Archibugi. E’ davvero peggiore del padre schiacciasassi di Franz Kafka? Dicono: ma il padre non deve essere simpatico. E perché mai, in quale decreto sta scritto? Dicono anche: il padre non può diventare il fratello maggiore. A parte che nell’epoca dei figli unici, un fratello maggiore è diventata una risorsa rara, che cos’hanno i fratelli maggiori per meritare un tale interdetto? Spesso i fratelli maggiori domandano, cercano di capire, vorrebbero sapere come sei fatto. Il padre di Kafka no, faceva il gradasso con il figlio “incespicante”. Meglio i fratelli maggiori.

 

E' in libreria “A proposito di Marta” (Mondadori), di Pierluigi Battista

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