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Tre nonne

Elisabetta Rasy

Le gentildonne e le contadine, le gonne nere e la crocchia grigia che scatenano l’immaginazione

Ci sono delle persone che considerano le nonne delle supermamme, per me non è stato così, anzi nella mia esperienza le nonne sono state qualcosa di molto diverso da una mamma, e sono convinta che sia meglio così, per ragioni che poi dirò. Di nonne ne ho avute tre, ma niente famiglia allargata con nonnigne di complemento, semplicemente c’erano due nonne e una bisnonna. Ognuna di esse, anche madre e figlia, era molto diversa dalle altre. E quando penso alla mia famiglia, le prime a venirmi in mente sono loro.

 

La bisnonna Evelina visse quasi cento anni. Era nata nel 1863 da una famiglia della buona società napoletana. Si sposò tardi – molto tardi per l’epoca: ventisettenne – con un uomo parecchio più grande di lei, vedovo della sua zia materna. Lui, figlio di un giurista di fiducia dell’ultimo re dei Borboni, aveva un passato burrascoso, duelli, amori tempestosi, e una vedovanza insieme inconsolabile e disinvolta. Ma il matrimonio fu felice e prospero: ebbero cinque figli, quattro maschi e una femmina, mia nonna Enrica. Il bisnonno morì nel 1925, la bisnonna visse fino alla soglia del 1960, e da bambina passai molto tempo con lei a Napoli. Naturalmente allora non mi rendevo conto di frequentare una donna dell’Ottocento, come lei era in tutto e per tutto. Nell’abbigliamento (gonne lunghe nere, camicetta bianca col collo fin sotto il mento e molti jabots che fasciavano la sua figura sottilissima e rimpicciolita dall’età), nei modi (cortese, discreta, silenziosa) e nella mentalità. Non dava mai giudizi tranchant, non alzava mai la voce neanche di un solo decibel e pareva convinta che, per quante disgrazie proponesse la vita, una gentildonna non doveva mai perdere la propria compostezza. Benché costretta all’immobilità non si lamentava mai. Non insegnava nulla ma, seduta sempre sulla stessa poltrona accanto alla finestra con un interminabile ricamo o un libro in mano, dalla sua persona emanava un senso di dignità ed educazione profonda che contagiava chi le stava vicino. Sua figlia, mia nonna, invece a casa non ci stava mai. Cioè quando ci stava perlopiù dormiva o si preparava a uscire, e tra le due cose riceveva le visite delle sue amiche. Era una donna alta, imponente, con i capelli tinti di un castano rosso e un rossetto della stessa tonalità sulle labbra. I suoi orari erano speciali: usciva tutte le sere alle otto per andare al circolo a giocare a carte e rincasava la mattina dopo all’alba, poi dormiva, poi si svegliava verso le due, poi riposava, poi riceveva, poi, dopo un’accurata toilette, riandava al circolo. Dicevano che quando aveva l’influenza la febbre si adattasse ai suoi strani bioritmi: più alta al mattino, più bassa la sera, contrariamente a quanto accade di solito. A differenza di sua madre era altera e snob, con improvvisi scoppi di allegria e civetteria, ma a parte la passione esclusiva per il gioco era una donna quasi ascetica: mangiava poco, era astemia, fumava solo qualche sigaretta e non raccontava mai vicende personali. Anche lei era impassibile di fronte alle difficoltà della vita e anche della Storia, come se parlare non dico di politica, ma semplicemente dei fatti del giorno fosse un’indiscrezione. Ogni tanto diceva cose strane, tipo, a tavola, quando mangiavo troppo lentamente : “Le portate a corte durano tre minuti”. Quale corte? Bah. Con i suoi nipoti non era affettuosa, ma molto gentile. Non giudicava mai, era molto rispettosa della vita altrui, certo non mi ha mai chiesto, imposto, rimproverato nulla, anche quando ci sarebbero state molte cose da rimproverarmi. La terza nonna, la madre di mia madre, era quanto di più lontano si possa immaginare dalle mie due ave napoletane. Era nata in un piccolo paese della Romagna da gente che coltivava la terra, in mezzo agli asini e ai cavalli di cui parlava spesso con trasporto. Era religiosissima e aveva la mania della politica, era una democristiana fervente e frequentava solo preti e monache, e una volta che da Napoli ero venuta a trovarla mi portò a farmi benedire a Sant’Ignazio da un certo gesuita in odore di santità e dopo a piazza del Gesù, sempre a farmi benedire, da Don Sturzo, che chissà perché era amico suo. Qualcosa della sua campagna, qualcosa di spiccatamente contadino, era sempre rimasto vivo in lei. Vestiva di grigio, aveva i capelli grigi stretti in una crocchia e da quando me la ricordo – doveva essere ancora piuttosto giovane – camminava curva e assorta e sembrava la vecchina delle fiabe.

 

Per nessuna di queste tre donne provavo un affetto particolare, era piuttosto un attaccamento venato di ammirazione nel caso della bisnonna, di soggezione nel caso della nonna paterna, di tenerezza nel caso della nonna contadina. Ma proprio perché non erano delle nonne-mamme tutte e tre mi hanno dato un forte sentimento del tempo, una consapevolezza che esiste il passato, concreto, tangibile e che ci riguarda, un senso verticale e non puramente orizzontale della vita, infine un senso della diversità nella vicinanza. (E poi, essendo tutte e tre un po’ strane, hanno messo in movimento la mia immaginazione).

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