Il bacio della buonanotte, quando non ce lo chiederanno più

Annalena Benini

Fra i messaggi di mia figlia e i singhiozzi di Marcel Proust. Che cosa ricorderanno, loro, di noi?

Sedevamo al tavolo di una trattoria vicino a casa, avevamo tantissima fame ma eravamo riusciti a ordinare per ora soltanto tre bicchieri di vino perché c’era troppa gente, ci piaceva stare lì a parlare e raccontarci una storia d’amore fra due che conosciamo che forse è finita perché lei chiede troppo, troppo. Avevamo brindato anche al chiedere troppo. In quel momento, sono arrivati: tre messaggi uno dopo l’altro. Erano di mia figlia, rimasta a casa con il fratello e la baby sitter, anzi a quell’ora doveva essere già addormentata, alle dieci e venti una bambina che la mattina si alza alle sette per andare a scuola deve dormire. “Mamma, perché non torni? Mi manchi”, e poi “Non riesco a dormire”, e subito dopo: “Però non dire al babbo che ti sto scrivendo”. Le ho risposto qualcosa di dolce e le ho promesso che il giorno dopo saremmo state molto più tempo insieme. Ma ecco il cameriere ci chiedeva se volevamo le orecchiette con le alici oppure la scamorza con il radicchio, e ci mostrava una lavagnetta con scritti sopra a mano i piatti del giorno e io che non mangiavo dalla mattina presto non avevo più fame. Se avessi potuto, se non fosse sembrato patetico e morboso, sarei corsa a casa e avrei salito le scalette del letto a castello per sdraiarmi con mia figlia e anche con il cane, che occupa tutto lo spazio e lei ormai si appiattisce in un angolo perché dice che il cane ha sofferto troppo quando nessuno gli voleva bene e quindi adesso merita di dormire più comodo.

 

Invece di correre da lei, a cinque minuti da lì, sono rimasta a cena, a ridere e parlare e stupirmi, e a pensare che sicuramente dopo un minuto mia figlia si è addormentata felice abbracciata al suo cane. Ma eravamo appena tornati dall’ascoltare una lezione molto bella di Alessandro Piperno: parlava di Proust e di quelle prime pagine della Recherche in cui Marcel bambino smania per la buonanotte della madre che non arriva perché ha ospiti a cena, e allora lui la aspetta con il cuore in tumulto in cima alle scale, pieno di spavento per la possibile arrabbiatura del padre per quelle “svenevolezze” e pieno però di bisogno del bacio della buonanotte che lenisca la sua sofferenza, che appaghi il desiderio: allora mi rimaneva, dentro la cena con gli amici e il chiasso e le risate, quel nodo in gola, un groviglio che si muoveva fra Proust e i messaggi di mia figlia, fra la grandezza di un romanzo che ci fa leggere noi stessi e il pensiero di quali saranno le immagini indelebili nella mente dei nostri figli quando diventeranno grandi, le cose che li accompagneranno per sempre, i singhiozzi che non smetteranno di risuonare dentro di loro. Siamo tornati a casa a piedi, quella sera, una sigaretta per due, e non dicevamo nulla, no ci guardavamo nemmeno perché era un pensiero inconfessabile la nostalgia dei figli per due ore soltanto, ma abbiamo allungato il passo per la frenesia di andare a controllarli nei loro letti, respiravano ancora o erano morti di solitudine, di abbandono?

 

Ci avrebbe accolto il loro sonno disordinato, una gamba fuori dal letto, la pancia completamente scoperta, i capelli appiccicati sulla fronte, un occhio mezzo aperto e una vocina da sotto un pupazzo: mamma ho sete, mamma mi serve il goniometro, oppure il cane alla finestra che abbaia disperato per dare l’allarme? Ma soprattutto c’è questo pensiero che torna spesso, all’improvviso, specialmente non siamo con i nostri figli e quando ascoltiamo storie di figli: che cosa vedono loro, da lassù in cima alle scale come Marcel che ascolta i suoi genitori commentare la cena appena terminata e gli ospiti andati a casa, che cosa vedono in me che la mattina dico: fate presto, fate presto, e invece sono sempre io a farli arrivare in ritardo, io che torno indietro a cercare le chiavi, il telefono, i soldi, la borsa intera, io che mi fermo davanti allo specchio mentre assurdamente ripeto: fate presto. Quali sono le cose che resteranno, fra milioni di cose fatte o mancate?

 

Un episodio qualunque, la volta che non ho risposto a una domanda sui compiti perché avevo altri cento pensieri più interessanti, o quando ho detto che no, non mi importa niente degli Youtubers e anzi penso che siano dei cretini, o quando ho detto che stasera non leggerò nessuna storia perché è tardi e perché sono stanca e perché la stanza è troppo in disordine e perché non si può perdere ogni settimana il libro di Scienze e perché sono esasperata dai loro litigi (mille perché, differenti e sensati ma tutti pronunciati a casaccio, per non dire la verità: stasera non ho voglia di leggere la storia), tutti gli episodi microscopici e quotidiani, infinitamente meno importanti dei baci e delle domeniche in campagna e della certezza che io starò sempre con loro, finché lo vorranno, stanno costruendo il ricordo che i miei, i nostri figli avranno dell’infanzia, di noi adulti e di loro bambini. Stanno costruendo anche i singhiozzi di cui parla Marcel Proust, che scoppiarono quando si ritrovò quella notte solo con sua madre, scoppiarono di felicità e infelicità insieme, e adesso che il tempo è perduto e ha distrutto tutto, adesso che da molti anni il padre non può più dire a sua madre: va’ a consolare il bambino, Proust rivela che quei singhiozzi non sono mai cessati.

 

“E solo perché la vita ora tace più spesso intorno a me, io li sento di nuovo come quelle campane di conventi che i frastuoni delle città coprono così bene durante il giorno che si crederebbero ferme, ma riprendono a suonare nel silenzio della sera”. Invece io vorrei coltivare l’illusione che un giorno mia figlia, guardandosi allo specchio, si ricorderà distrattamente di quando io mi fermavo la mattina davanti allo specchio e la facevo arrivare tardi a scuola, e sarà più allegra per questo, non più triste; ripenserà anche a quando li facevo stare alzati fino a tardi di nascosto, mettendo il timer sul telefono per contare tredici minuti. “Il babbo ha detto che torna fra un quarto d’ora, quindi adesso potete saltare sul divano per tredici minuti e anche guardare un film e bere la Coca Cola e picchiarvi, però appena suona il timer dovete correre a letto sotto le coperte al buio e fare finta di dormire da un’ora”. Mio figlio mi ha detto: sei una madre strana. Ma ti dispiace? No, mi fai ridere. E vuoi il bacio della buonanotte? Sì, ma uno solo, non trecento che mi soffochi.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.