La notte in cui mia moglie scoprì che mettevo i tappi nelle orecchie

Valerio Magrelli

Io dovevo pur sopravvivere, e giunsi a sostenere che lo facevo per lui, il nostro piccolino, per evitare di farne un povero orfano in età prematura

A Marco Peano Riprendo un mio vecchio scritto e lo sfrego forte, in modo da riaprire la vecchia ferita. Ogni figlio dà fuoco alla giovinezza dei suoi genitori. La mette a fuoco, e ne ottiene così delle persone nuove, padri, madri, metalli passati alla forgia: creature metamorfosate. Alzarsi alle quattro di mattina, nel cuore della notte, per cullare un estraneo, l’estraneo più soffice che si possa immaginare. Atroce pensiero alla Philip Larkin: “L’uomo passa all’uomo penuria. / Si approfondisce come un’insenatura. / Esci prima che puoi, / E non aver figli tuoi”. Io non faccio testo. O meglio, il mio testo proviene dal contesto avvelenato di chi ha dovuto seguire l’operazione di due neonati. Ecco perché il neonato per me è soltanto un paziente di troppo. L’odore di borotalco si mescola al sentore di disinfettante. Fra culla e barella, non vedo soluzione di continuità. La balia si trasforma in infermiera. Basta un attimo, e i due mondi confliggono; dal biberon, passo all’esile forca da cui pende la flebo, mentre il neonato scivola dal pannolino al cerotto. Un bimbo in fasce? Meglio: un bimbo in garze. Clarice Lispector: “Nascere, mi ha fatto male alla salute”. Meglio Cechov, allora: “Da morti si spende di meno”. Le sue cure, dentisti, dermatologi, vaccini: tutto si raddoppia, e perciò ci dimezza. A meno, va da sé, di disinteressarsene. Da un film americano di serie B. Il figlio al padre: “Maledetto! Mi hai rovinato l’infanzia!”. E il padre: “Io? Ma se non c’ero mai!”. No, io invece faccio il padre di mestiere.

Che costi, però! Bisogna rassegnarsi a versare tutto il proprio tempo in un altro recipiente, in un recipiente nuovo, ovvero il figlio. Si compie un’operazione di trasloco, che ti trasloca da te al suo Io. E’ giusto, poiché ha bisogno di materiale edile per erigere il suo sé. E da dove prenderlo, se non dal genitore? Si parva licet, pensare a Palazzo Barberini, costruito con i frammenti del Colosseo. Un’impresa di smantellamento: “Quod non fecerunt barbari, Bambini fecerunt”. Il sonno, la stanchezza, il peso – curvarsi, piegarsi, sollevare. Un medico mi disse che questi sono gli anni che vedono trionfare “il colpo della strega”. La schiena dei padri si spacca, alzata dopo alzata (le madri meno). Il ginocchio sinistro, invece, mi venne operato dopo sei mesi trascorsi a spingere mio figlio in bicicletta. Un penitente, io, che avanzava chino, recando la sua immagine votiva. A volte mi veniva da scappare. E mi immaginavo nei panni di quei carcerati che cercano di evitare gli inseguitori. Calarsi nell’acqua gelata, far perdere le tracce alla muta dei cani smaniosi, restare appeso al respiro con un esile tubicino. Funzionerà? Chi può dirlo? Può darsi. Ma già mi sembra di sentire il grido del capocaccia, il pianto del primogenito, che in qualche modo ha ritrovato l’evaso. Machiavelli: “Fare figli è come dare ostaggi alla fortuna”.

Non solo: a ben vedere, per concepire un figlio e soprattutto allevarlo, bisognerebbe essere almeno in otto. Ci vorrebbe una squadra, uno staff, un reparto, come con un detenuto pericoloso. Attenzione, però: questa impressione di profonda ostilità, nasconde solo un illimitato senso d’impotenza. D’altronde, fare un figlio significa abbandonare una persona di notte, per strada, con una gomma a terra. Il minimo che possiamo fare, in attesa di andarcene, è insegnargli a cambiarla (perché, se tutto va bene, noi ce ne andremo prima, lasciando quel poveretto nei guai, a cavarsela da solo). Impossibile negare l’evidenza di aver convocato dal nulla degli esseri che non avrebbero mai avuto la minima intenzione di venire al mondo. Chateaubriand: “Mia madre mi inflisse la vita”. Siamo noi ad averli tirati in ballo, trascinandoli su questa pista arroventata; ecco perché dobbiamo loro tutto. E’ ora di assumerci le nostre responsabilità in quanto genitori-generatori del “danno” (dal verbo “dare”, riferito cioè a una vita “data”). E’ questo il vero nodo del problema: “Solo Cristo / ebbe la forza di darsi la vita”. Infatti, nell’atto della copula, possiamo infliggere l’esistenza a un individuo non consenziente, ma non certo a noi stessi. Pur potendosi dare la morte (come massima prova della propria libertà), l’uomo è costretto a ricevere la vita. E chi sarebbe tanto folle da affibbiarsela? Questa è l’unicità del Cristo-Dio: un suicida alla rovescia.

Il Figlio costituisce quindi l’irruzione di una creatura d’inaudita potenza nella vita di una coppia. Creatura sovrana perché sovranamente indifferente ai nostri sforzi. “Cricche e cracche!”. Il figlio svelle e sfonda la vita dei suoi genitori. Ricordo ancora la notte in cui mia moglie scoprì che mi mettevo i tappi nelle orecchie… Ecco perché non mi svegliavo mai! Vile, mi disse, vile! E aveva ragione. Ma io dovevo pur sopravvivere, e giunsi a sostenere che lo facevo per lui, il nostro piccolino, per evitare di farne un povero orfano in età prematura. Perché l’uccisione del padre (la madre è un osso duro) non ha davvero nulla di simbolico, ma rappresenta un progetto concreto. Resta comunque un dato incontrovertibile: vedere i figli crescere, è bellissimo, perché crescendo si allontanano dall’infanzia, dal terreno minato di un’età che piange, trema, teme, grida, caca.

“Il sangue amaro” di Valerio Magrelli è uscito per Einaudi nella collezione di poesia

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