Una scena di "Un sacco bello"

Il bi e il ba

Così i figli dell'amore eterno di Verdone si sono trasformati in borghesotti

Guido Vitiello

La metamorfosi della sinistra è tutta nell'uso del termine "problematico": importato dall'America, indica tutto ciò che rischia di causare o legittimare forme di oppressione. Un metodo di ostracismo sottile e sempre più diffuso

Nel giugno del 1979 Einaudi pubblica la prima edizione di Nero su nero, lo zibaldone di Leonardo Sciascia; in quella stessa estate, Carlo Verdone gira in poco più di un mese il suo primo lungometraggio, “Un sacco bello”. Tra le due cose non c’è nessun rapporto, direte voi, ma aspettate a trarre conclusioni affrettate. In quelle pagine, infatti, Sciascia registrava l’avvento di un nuovo tipo umano, da lui battezzato il cretino di sinistra, il cretino intelligente mimetizzato “nel discorso problematico”. Quasi a fargli eco, il ruvido Mario Brega rampognava il figlio Ruggero diventato hippie: “Ma come t’è uscito fòri tutto ’sto frasario ciancicato? Come m’hai detto prima? Probblemàdiga, probblemàdigo…”. E già, da dov’è che spunta questo aggettivo, e soprattutto, perché è tornato a circolare negli ultimi anni a sinistra?

 

La questione è problematica e io, per citare la frase di un altro eroe degli anni Settanta, il calciatore brasiliano Dadá Maravilha, non ho la solucionática. In compenso Frank Furedi (What’s happened to the university, Routledge, 2017) ha provato a ricostruirne la storia limitatamente al mondo anglofono. L’aggettivo problematic, dice, entra nel vocabolario accademico nel 1970, quando nel catalogo dei New Left Books compare la traduzione parziale di Leggere il Capitale di Louis Althusser; e da lì in poi il termine diventa indissociabile dal gergo post marxista. Ma resta confinato nella ruminazione esoterica dei seminari universitari fino al 2010 circa, quando gli attivisti nei campus cominciano a usarlo più spesso del Ruggero di “Un sacco bello”, e a diffonderlo non già con il volantinaggio ai semafori di Roma ma tramite i canali dei social network. Per l’Italia non saprei fare una ricostruzione altrettanto precisa, ma è certo che la ricomparsa della parola si deve molto alla moda statunitense, e a certi nostri attivisti alla periferia dell’impero che si sono messi a parlare in doppiaggese accademico, adottando calchi più o meno goffi di parole americane o importandole di peso, anche quando esisteva già una parola italiana perfettamente equivalente e pronta all’uso: perché dire slur quando puoi dire insulto? È tutto piuttosto comico, e bisognerebbe richiamare in servizio dall’altro mondo Fruttero & Lucentini per commissionargli, dopo il capolavoro di caratterizzazione dell’americanista Bonetto, il ritratto di quest’altra tipologia di provinciale. 

 

Si dirà: ma problematico è parola italianissima, e prima ancora latina e greca, insomma tutta la trafila Docg del liceo classico. È vero; ma l’uso che ne fa oggi la sinistra esterofila è modellato sull’uso americano. Dove problematic non è più sinonimo di controverso, complicato, discutibile, meritevole di esame ulteriore, ma significa l’esatto contrario. Il linguista John McWhorter crede che l’approssimazione più precisa di problematico, nell’uso attuale, sia “blasfemo”. Problematico è tutto ciò che rischia di causare o legittimare forme di oppressione – razzismo, sessismo, transfobia eccetera – per come le interpreta l’ortodossia di quella che McWhorter considera una nuova religione. Il suo tentativo di traduzione, tuttavia, non mi convince. Non è affare qui di veri credenti e di eretici, di puritani e di roghi, ma di un metodo di ostracismo più sottile.

 

Nota sempre Furedi che la parola problematico ha avuto tanta fortuna nel mondo accademico perché consente di esprimere biasimo in una forma indiretta, non apertamente aggressiva. In questo senso, è più affine a parole come “sconveniente” o “inappropriato”. Punisce un’infrazione etica che è anche, o soprattutto, uno sgarro all’etichetta, al cerimoniale che regola la presentabilità sociale in base alle norme di cortesia o di civilitas di una nuova “civiltà delle buone maniere”. Proprio la sua natura di disapprovazione implicita si presta, pragmaticamente, a manovre passivo-aggressive e a esercizi di distinzione snobistica di vario tipo: serve a ignorare il villano che pretende di partecipare alla conversazione senza avere appreso le regole linguistiche in continuo aggiornamento che hanno trasformato la virtù in una competenza tecnica da maneggiare farisaicamente. Non è più la parola emblema del dibattito interminabile da anni Settanta, ma un espediente per troncare il dibattito: con chi ha idee problematiche non sta bene parlare, tantomeno accompagnarsi in società.

 

In effetti, a cercare con più scrupolo, si può rintracciare un’accezione simile anche nella storia della lingua italiana. “Che dà adito ad ampie riserve sulla propria condotta morale, onestà, valore”, attesta il Battaglia, che però di questa versione perbenistica del termine porta esempi non più recenti del Diciannovesimo secolo, tra cui questo: “Parecchie donne, anche problematiche, la schivavano”. Insomma, un sinonimo di “poco di buono”, o di socialmente impresentabile. Chi l’avrebbe mai detto! I figli dell’amore eterno di Verdone, recuperando una vecchia parola del loro frasario ciancicato degli anni Settanta e risciacquandola nel Mississippi, si sono trasformati in borghesotti.

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