Foto LaPresse 

il bi e il ba

Il problema del gender sono gli adulti che giocano con le subculture adolescenziali

Guido Vitiello

L’età canonica dell’epoca di internet e dei social media si avvia a essere quella dell’adolescente, il non più bambino e non ancora adulto. E l’attività principale dell’adolescente è la sperimentazione sull’identità

Sull’ultimo numero della rivista New Media & Society ho letto un saggio sfrenatamente ellittico del mediologo canadese Bertram W. Holofernes che penso possa avere un interesse extra-accademico. Lo riassumo quindi a beneficio dei lettori, nella speranza che mi seguano fino in fondo e che ci trovino qualche utilità. Fin dal titolo, “Age trouble”, il saggio fa dichiaratamente il verso al libro più famoso di Judith Butler, “Gender trouble”. L’idea centrale – che in un primo momento mi è parsa bizzarra ma poi, pagina dopo pagina, mi ha conquistato – è semplice: ciò a cui assistiamo negli ultimi anni non è un ingarbugliamento dei generi, è semmai un ingarbugliamento delle età della vita che ha scelto il genere (ancorché non solo quello) come suo terreno elettivo. Non sono i pilastri del maschile e del femminile a essere abbattuti, ma quelli dell’infanzia e dell’età adulta, e il loro crollo ha lasciato sul campo le macerie di un’adolescenza informe e interminabile. 

Holofernes si rifà al libro del 1985 di Joshua Meyrowitz, “Oltre il senso del luogo”, e alla sua tesi ormai classica secondo cui i media elettronici, unificando i pubblici, li hanno anche amalgamati. Se il libro stampato consentiva di tenere separati i canali d’informazione – letteratura femminile, letteratura per l’infanzia, ecc. – la televisione li ha fatti convergere su un solo schermo, un solo palcoscenico sociale. Gli effetti di questa implosione, secondo Meyrowitz, sono stati tre: l’indistinzione tra maschile e femminile, la confusione tra infanzia e maturità, la sovrapposizione tra sfera pubblica e privata (e la conseguente presentazione del politico come uomo comune). Ebbene, Holofernes sviluppa la tesi di Meyrowitz sostenendo che la nuova battaglia dei sessi e dei generi non è un’estensione della prima “conflation” (maschile e femminile) bensì della seconda (infanzia e maturità). L’autore riprende uno schema grossolano ma utile di Régis Debray: all’epoca della scrittura l’“età canonica” era quella dell’Anziano, ossia il saggio delle società tradizionali; la stampa gutenberghiana ha inaugurato l’egemonia dell’Adulto; i media audiovisivi hanno incoronato il Giovane. Il Sessantotto non è stato che un epifenomeno di questo smottamento profondo. Ebbene, al termine di osservazioni e deduzioni un po’ rapsodiche che mi sarebbe impossibile riassumere qui (segnalo però una pagina deliziosa sulla popolarità dei film della Pixar), Holofernes conclude che l’età canonica dell’epoca di internet e dei social media si avvia a essere quella dell’adolescente, il non più bambino e non ancora adulto. E l’attività principale dell’adolescente è la sperimentazione sull’identità. I millennial e i post-millennial della generazione Z non fanno eccezione. 

Nella moltiplicazione delle etichette di genere non binarie – genderqueer, genderfluid, bigender, quadgender, agender, boyflux, libragender, perfino moongender (sono quelli il cui genere si manifesta solo di notte) – Holofernes vede in atto un’esplorazione dell’identità in linea con i “fantasy play” dell’infanzia e con gli avatar e i profili social delle interazioni in rete. Di per sé non ci sarebbe niente di nuovo o di strano, dice l’autore, se non fosse che l’“age trouble” ci ha privati della classe degli adulti, che faceva da argine e da “terminus ad quem” di queste esplorazioni. E così, persone anagraficamente mature fanno a gara a prendere sul serio e alla lettera tutto ciò che gli anagraficamente immaturi pretendono. Holofernes lo illustra con tre esempi: primo, l’adozione trasversale, nel dibattito, di gerghi tipici da subculture adolescenziali (da cui lo spettacolo deprimente di adulti puerili che si insultano a colpi di “cis”, “terf”, “enby”, ecc.); secondo, l’opinione corrente che i ragazzini siano fonti indisputabili circa la propria “identità di genere”, e che si debba accettare quel che dicono di sé (da cui la celebrazione del “trans kid”, il modello dell’“affirmative care” e l’uso dei farmaci che bloccano la pubertà); infine, la creazione di una galassia di microtribù identitarie (le decine di etichette di genere di cui sopra) rispetto alle quali gli adulti, ossia i nuovi adolescenti invecchiati, non trovano di meglio che consacrarle negli studi, legittimarle nei regolamenti universitari o addirittura infilarle nelle leggi. Tutto questo, conclude Holofernes, non è un rimescolamento dei generi e non ha nulla a che fare con il crollo di un fantomatico ordine eterocispatriarcale. È la confusione delle età della vita. (Il saggio non esiste, ma se qualcuno lo scrivesse lo leggerei volentieri). 

Di più su questi argomenti: