Manifestazione Lgbtqi in occasione della nota del Vaticano sul ddl Zan (foto LaPresse) 

La teoria gender esiste eccome

Guido Vitiello

Affermare che “la teoria gender non esiste” fa parte  del frasario essenziale per non essere linciati in società. Ma è così? Storia di un’ideologia e di un dibattito pubblico drogato da pazzie simmetriche

– La teoria gender non esiste.
– La teoria gender non esiste anche a lei, signora!

Suona come una delle tragedie in due battute di Achille Campanile, ma in realtà vuol fare il verso a una vignetta dei primi anni Novanta (di Altan, assicurano le mie fonti) in cui due tizi si scambiavano come saluto “Il comunismo è morto”, che era uno dei tormentoni dell’epoca. “La teoria gender non esiste”, proseguono di solito questi bei conversari, “esistono semmai i gender studies, o studi di genere, i quali non sono altro che un campo di ricerche accademiche”; “Non lo dica a me, signora cara, sappiamo bene che la teoria gender – anzi, perfino l’ideologia gender: cosa capita di sentire! – è un fantoccio cospiratorio, uno spauracchio creato dal Vaticano e da reazionari assortiti”. Come dar torto ai nostri due cerimoniosi interlocutori? E’ vero, la formula “teoria gender” è ideologicamente iperconnotata. Ci arriva spesso per bocca di certi Barruel arronzoni che alludono a un disegno capillare di sovversione dell’ordine naturale, di distruzione della famiglia tradizionale e di corruzione dell’infanzia e della gioventù. Chi la usa, sia pure incidentalmente – buon ultimo Matteo Renzi –, si attira il legittimo sospetto di strizzare l’occhio a quella parte del mondo cattolico e della destra conservatrice che ne ha fatto il proprio bersaglio polemico fin dagli anni Novanta. 

 

“La teoria gender non esiste” fa parte ormai del frasario essenziale per passare inosservati in società, dove per inosservati deve intendersi, oggi, non linciati sui social network. La ripetono a ogni occasione gli attivisti, com’è naturale, ma l’eco si propaga in cerchi via via più ampi, al punto che ci si aspetta di sentirla pronunciare da chiunque faccia causa comune con il progresso. Eppure, qualcosa non mi torna. Com’è che avverto in quel mantra, sotto l’apparenza della ragionevolezza, una nota insidiosamente falsa? Che siano residui di propaganda papalina tenacemente incrostati sulla mia coscienza laica di vecchio pannelliano? Per togliermi il dubbio, ho letto un pamphlet molto informato e competente sul tema, “La crociata ‘anti-gender’ dal Vaticano alle manif pour tous” (Kaplan, 2018) dei sociologi Sara Garbagnoli e Massimo Prearo, che si presentano fin dalla prima pagina come studiosi militanti. Se ne scrivo qui è perché mi pare un magnifico esempio di una distorsione sempre più comune delle nostre guerre culturali: in breve, gli autori mostrano di avere una visione acutissima dei trucchi retorico-ideologici usati dal nemico, ma sembrano ciechi come talpe rispetto agli stratagemmi della propria parte, che sono non di rado perfettamente speculari – la vecchia storia delle due bisacce di Esopo. Ma a questo arriveremo in coda. 

 

Analizzando lo scenario italiano e quello francese, Garbagnoli e Prearo ricostruiscono diligentemente la storia, gli usi retorici e le funzioni ideologiche di sintagmi come “teoria del gender”, “ideologia del gender”, “genderismo” o (sbrigativamente) “gender”. Si tratta, dicono, di etichette farlocche e di pseudo-concetti. Non esiste nessuna “teoria gender”, calco infelice di “gender theory”, esistono semmai diverse teorie di genere, spesso in conflitto l’una con l’altra. Quando si parla di questo campo al singolare – peraltro riducendo tutto a Judith Butler – si rende invisibile “la ricchezza e la diversità delle molte teorie antiessenzialiste che lo attraversano”. L’obiezione, per quanto corretta, non mi pare decisiva. Pur lasciando stare Hegel (“c’è un partito soltanto quando esso ha in sé la divisione”), è chiaro che un appunto simile lo si può muovere solo da una posizione tutta interna agli studi di genere. L’osservatore estraneo, scettico o apertamente ostile darà poco peso alle distinzioni e molto ai lineamenti comuni. Vale per tutte le teorie, per tutte le ideologie, per tutte le dottrine, perché mai non dovrebbe valere solo per questa? Chi detesta il liberalismo non si appassionerà alle controversie dottrinarie tra Hayek, Friedman e Nozick, perché gli sembreranno viziate da un gigantesco errore di fondo, che chiamerà appunto l’ideologia liberale. Il vituperato liberale, dal canto suo, non avrà bisogno di fare il sottile tra leninisti, maoisti, operaisti e post-operaisti per sapere che si tratta di cinquanta sfumature di comunismo. Al non cristiano non interesseranno più di tanto le dispute sul filioque o sulla transustanziazione, o gli antichi e mai sopiti diverbi tra agostiniani e pelagiani, se il cristianesimo in blocco gli pare un’impostura; a chi respinge l’omeopatia poco importa delle differenze tra scuole uniciste classiche e scuole complessiste. Eccetera. Allo stesso modo, chi rifiuta alla radice il presupposto “antiessenzialista” comune alle diverse teorie di genere femministe e queer – che lo faccia in nome della biologia, della teologia, di un’antropologia filosofica o di vari dosaggi di questi tre ingredienti – non si vede perché non debba riferirsi alle diverse sottofamiglie con una parola unica. Anche studiosi non clericali – la filosofa Bérénice Levet, lo storico della scienza Jean-François Braunstein – difendono la legittimità di riferirsi a una “théorie du genre” come termine ombrello, e non accettano lo stigma di oscurantismo associato all’espressione, che di fatto la lascia in comodato d’uso alla sola destra cospirazionista. 

 

Il mio ragionamento filerebbe in teoria, ma pecca di ingenuità, perché non è in questo senso rigoroso che l’espressione circola nel nostro dibattito pubblico drogato, dove una versione tagliata male di “teoria gender” è spacciata più o meno come “lobby gay” (provocando gli stessi effetti allucinogeni). I crociati anti-gender, dicono Garbagnoli e Prearo, non prendono di mira, per esempio, l’antiessenzialismo – che sarebbe un comun denominatore corretto – ma costruiscono una creatura mitologica, il Gender, che possa meglio spaventare il gregge dei fedeli, e contro cui sia più facile aggiustare la mira. Verissimo, ma allora dobbiamo concludere che il Gender è un po’ come il mastino dei Baskerville del romanzo di Sherlock Holmes: non esiste in quanto mostro demoniaco venuto dall’inferno, certo, esiste però in quanto cane terrestre, spalmato di una mistura luminescente a base di fosforo per renderlo più terrificante. E allora la domanda essenziale diventa un’altra: il Vaticano ha cosparso di fosforo il cane giusto, o va a caccia di strane chimere da bestiario medievale? Su questo non sembra esserci dubbio: “La nozione di genere suscita a ragione le ire del Vaticano”, tagliano corto i due sociologi, che riconoscono alla Chiesa “una lucida consapevolezza della portata sovversiva del concetto di genere”, perché “il genere è uno strumento teorico che veicola una visione del mondo diametralmente opposta a quella difesa dal Vaticano”. A naso, sembrerebbe proprio la descrizione di un’ideologia. Non un complotto beninteso, non il disegno di un nuovo ordine mondiale, non una lega massonica occulta, ma un’ideologia (che però, come sappiamo dai convenevoli d’esordio, non esiste per petizione di principio).

 

Prima di correre a questa conclusione impopolare, c’è un’ipotesi di riserva di cui tener conto: che le teorie di genere siano solo la voce attuale del progresso in senso lato scientifico, che siano un punto più avanzato della conoscenza laica, e che la Chiesa si opponga al loro trionfo come si è opposta (e in parte ancora resiste) all’evoluzionismo. In realtà, però, quel che gli autori, e con loro molti altri, contestano al Vaticano non è tanto di sostenere teorie smaccatamente antiscientifiche (l’unico accenno incidentale, nel libro, riguarda il determinismo biologico, che sarebbe stato dimostrato falso dalle “sociologhe della scienza femministe”, cosa di cui mi permetto di dubitare), quanto di animare “una politica sessuale controrivoluzionaria che si oppone alle trasformazioni emancipatrici della democrazia sessuale”. Quella della Chiesa è una reazione alla “rivoluzione femminista e LGBTQI”, una duplice lotta che gli autori vogliono contribuire a far avanzare: “L’una e l’altra aspirano a polverizzare il sistema di pensiero naturalista ed essenzialista e le strutture economiche e sociali attraverso cui, in un gioco di complicità implicita, l’uno sostiene e perpetua le altre”. Lettori miei, se non è un’ideologia questa – ideologia: “Il complesso dei presupposti teorici e dei fini ideali (o comunque delle finalità che costituiscono il programma) di un partito, di un movimento politico, sociale, religioso e sim.” – corriamo tutti a bruciare i dizionari, nella fattispecie il Treccani.

 

Garbagnoli e Prearo riconoscono che è in atto uno scontro essenzialmente politico tra visioni del mondo contrapposte. E io dico che per il bene di tutti, anche di noi osservatori non arruolati, sarebbe il caso che lo si combattesse a viso aperto, cavallerescamente, senza mimetizzarsi con il camouflage del debunking per rendersi invisibili all’esercito nemico. Ma allora perché uno dei due campi, così solerte nel demistificare gli illusionismi retorico-ideologici del nemico, ci tiene a nascondere la propria natura ideologica – anche nel senso neutro o positivo del termine – e s’indispettisce tanto se le affibbiano l’etichetta un po’ rozza di “ideologia gender”? Se i movimenti femministi e LGBTI, malgrado le dispute dottrinarie, marciano in una direzione condivisa e verso una meta comune, se le loro teorie “costituiscono delle vere e proprie armi intellettuali e politiche che hanno per obiettivo, esplicitamente rivendicato, di mettere fine al mondo sessista e omolesbobitransfobico”, c’è da stupirsi che gli avversari se ne accorgano e ne traggano le conseguenze? E perché i gender studies sono presentati, quando fa comodo, come un circoletto universitario su cui degli invasati religiosi elaborano strane paranoie, salvo poi, quando fa comodo il contrario, raffigurarli come l’avanguardia intellettuale di una rivoluzione politica, antropologica e sociale che saldando le elaborazioni accademiche alle lotte minoritarie punta a scardinare il patriarcato, il capitalismo, il nazionalismo fondato sulla famiglia, il razzismo, le gerarchie intersezionali del dominio, a “minare il senso comune eteronormativo, e le strutture economiche e ideologiche su cui si fonda”?

 

Gli autori accusano il Vaticano di “eufemizzare” le proprie posizioni – di presentarle cioè come semplici, di buon senso, autoevidenti e supportate da una biologia fatta coincidere opportunamente con il magistero; e la loro critica sarebbe da tenere in conto, se non fosse che poi presentano gli strumenti teorici forgiati nel laboratorio dei gender studies come semplici “lenti” che consentono di vedere realtà incontrovertibili, e alla cui adozione si può “resistere” solo per fini poco nobili di conservazione del potere, per una cecità deliberata, perché “coloro che si oppongono al genere come concetto, sono proprio i difensori del genere come sistema di dominazioni” (una bella prigione circolare, schema che gli americani chiamano Kafka-trapping: se rifiuti la mia teoria, indirettamente la confermi). 

 

Qualcuno dovrebbe scrivere un pamphlet gemello sulle strategie argomentative dei movimenti femministi e LGBTQI. Probabilmente finirebbe per constatare che si servono di espedienti non diversi da quelli che contestano così acutamente al nemico: eufemizzare le proprie posizioni, dicendo per esempio che le “teorie di genere” non fanno che registrare fenomeni reali e inoppugnabili; deformare le posizioni rivali, con accuse automatiche e più o meno casuali di omotransfobia; costruire infine il comodo fantoccio di un Reazionario Collettivo – l’Antigender – in cui infilare cattolici, fascisti, conservatori, biologi essenzialisti, sessuologi e psicologi dissidenti, illuministi recidivi, studiosi raziocinanti che obiettano ai pasticci teorici e ai difettivi sillogismi della “gender theory”, e infine le diaboliche femministe trans-escludenti o terf. Tutti arruolati come “compagni di strada” onorari (quando non proprio utili idioti) di una crociata orchestrata dal Vaticano. 

 

Ora che ci penso, mi ero già imbattuto in un’ideologia che si nega come tale e che appone questo marchio soltanto al nemico. Era in una vecchia pagina di Roger Scruton sulla derivazione della nozione foucaultiana di “episteme” da quella marxiana di “ideologia”: “Poiché la teoria delle classi sociali è una scienza autentica, il pensiero politico borghese è ideologia. E poiché la teoria delle classi sociali rivela il pensiero borghese come ideologia, deve essere scienza. Siamo entrati nel cerchio magico di un mito della creazione”. 

– L’ideologia gender non esiste.
– Chi si rivede! L’ideologia gender non esiste anche a lei, signora!

Di più su questi argomenti: