Patrick Cutrone (foto LaPresse)

Elliott con il Milan scopre la complessità dell'economia italiana

Redazione

In pochi mesi, Paul Singer ha iniziato a capire che il calcio in Italia è un gioco rischioso. E Telecom è peggio del calcio

Quando si tratta di investire, scommettere, alzare i toni, provare a rovesciare la situazione, ottenere il risultato, il fondo Elliott ha pochi rivali. La creatura speculativa, anzi attivista per la precisione, di Paul Singer sa il fatto suo. Fondata nel 1977, gestisce masse per 35 miliardi di dollari e ha appena messo a segno, in Italia, un disinvestimento di primo livello: ha detto addio ad Ansaldo Sts (sistemi ferroviari) aderendo all’offerta della giapponese Hitachi e incassando un assegno di 807 milioni.

 

Ma quando si tratta di gestire società? Come opera, come lavora e quali risultati ottiene Elliott? Singer è accreditato da Forbes di una ricchezza personale di 3,2 miliardi di dollari, per puro caso la metà esatta della fortuna di Silvio Berlusconi (6,4 miliardi), l’uomo che nell’aprile di un anno fa si è disfatto di quel Milan che dall’estate scorsa è nel portafoglio di Elliott. Se si guarda a ciò che sta accadendo in queste ultime settimane, o meglio mesi – ai due dossier caldi del mercato italiano, si nota una certa difficoltà. Per questioni meramente geografiche è il caso di partire dall’analisi dell’affare legato al club rossonero. Subentrato come il salvatore della patria (e della Curva Sud) nel luglio scorso, escutendo il pegno sul 99 per cento e spiccioli del Milan in mano al carneade cinese Yonghong Li, ossia l’uomo che ha permesso a Fininvest di portare a casa qualcosa come 740 milioni in termini di valutazione complessiva della squadra, ora Elliott si trova a metà del guado. Ha chiamato Paolo Scaroni, manager di lunghissimo corso, buon amico del Cav., e gli ha affidato la presidenza dell’adorato (dal Cav.) Milan. Poi ci ha messo del tempo per trovare l’amministratore delegato: Paul Gazidis, in arrivo dall’Arsenal tanto caro a Gordon Singer, figlio di Paul. Doveva arrivare anche Umberto Gandini dalla Roma, ma poi tutto è finito in una bolla di sapone. Anche perché, dopo gli arrivi roboanti di Leonardo e Paolo Maldini, ora c’è da trovare la quadra sui conti, affidati al momento al partner del fondo londinese Gianluca D’Avanzo, nominato direttore finanziario del club. Da settembre, si calcola, il Milan perde qualcosa come 8-10 milioni al mese – l’ultimo esercizio si è chiuso con ricavi per 255,8 milioni e un rosso di 126 milioni – nulla di eccessivamente preoccupante nel dorato mondo del pallone, ma poi simili gestioni e squilibri ti obbligano a mettere mano al portafoglio. Come aveva sempre fatto Fininvest, girando alla controllata un assegno di 60-80 milioni all’anno.

 

Ecco, oggi questo scoglio va superato con l’ampliamento del giro d’affari e, soprattutto, l’approdo alla Champions League, meta obbligata per accrescere i ricavi. Ed è allora per questo che Elliott, viste le difficoltà del business del calcio e pure della coesione della Lega Serie A, ha chiamato in causa Unicredit per cercare un socio di minoranza per lanciare concretamente la sua campagna. Anche perché, prima o poi, un fondo attivista deve monetizzare: leggasi vendere e incassare. E se è vero che la creatura di Singer ha di fatto in carico la quota di controllo alla cifra di 303 milioni, e che quindi anche con un assegno di 400 milioni ci guadagnerebbe, è altrettanto vero che la valutazione implicita assegnata alla squadra è superiore ai 600-650 milioni: oggi però è una soglia ritenuta alta dal mercato. Detto questo, il fatto che si cerchi sin d’ora un partner non finanziario dimostra che forse la strategia sul Milan non è così ben chiara o a lunga gittata. Tanto più che il progetto che poteva dare la svolta, ovvero la costruzione dello stadio di proprietà (costo stimato 350-360 milioni) è stato congelato per puntare alla condivisione di San Siro con i cugini nerazzurri. Ma senza stadio, come dimostra il piano d’azione della Juventus, non si cresce.

 

E allora pure questo è un altro segnale della volontà di Elliott. Fondo che al contempo si deve confrontare con il duro contesto geopolitico-finanziario di quella nebulosa chiamata Telecom. Perché dopo essere riusciti laddove nessuno fondo attivista era mai riuscito ad arrivare, almeno in Europa, ossia la vittoria in assemblea contro un socio forte industriale, Vivendi, partendo da una posizione azionaria di svantaggio – 8,8 per cento versus il 24,6 per cento di Vincent Bolloré – dallo scorso maggio Elliott non ha aggiunto alcunché alla già complicata gestione del gruppo telefonico. Nonostante una cda moderno – 13 consiglieri indipendenti su 15 – Telecom è di fatto bloccata sul nulla di fatto, a partire dalla strategica operazione di scorporo della rete (valore 15 miliardi). Troppe liti intestine al cda, troppi galli (il presidente Fulvio Conti, ex Enel, i consiglieri Rocco Sabelli, Luigi Gubitosi e Alfredo Altavilla, ex Fca) nel pollaio. Troppi potenziali o auto-candidati amministratori delegati che hanno portato alla guerra sotterranea contro il ceo Amos Genish, manager israeliano silurato da Elliott (e da Cdp) in men che non si dica mentre si trovava in Asia per trattare con colossi quali Huawei e Lg, che dopo essersi lamentato, anche pubblicamente, degli spifferi fuoriusciti dal consiglio, ha parlato di un “putsch in stile sovietico” per la mossa del fondo di Singer. Un messaggio diretto a Elliott che ora rischia di perdere il controllo del board visto che è data per scontata la contromossa di Vivendi: la convocazione di una assemblea straordinaria per provare il contro-ribaltone, chiamando a raccolta quei fondi che a maggio hanno dato la vittoria a Singer. Sarebbe un colpo basso difficilmente digeribile. Ma quando c’è di mezzo Telecom i colpi di scena sono dietro l’angolo. E’ peggio del calcio. Ma forse questo, il fondo da 35 miliardi, non lo aveva calcolato.

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