(Foto LaPresse)

“Un Porto a San Vittore”. Fotografie per scoprire un luogo “di transito”

Rolla Scolari

L'associazione Amici della Nave organizza incontri e attività per i detenuti

Sono tre omoni quelli che abbozzano posizioni di yoga tra gli scaffali di una biblioteca. I loro muscoli gonfi, le canottiere e i calzoncini mimetici raccontano palestre e storie di quartiere. È evidente che, in equilibrio maldestro sui quegli stretti tappetini, ci stiano veramente provando. L’immagine è parte di un racconto emozionante che porta a scoprire una realtà nel cuore di Milano, separata però dalla città da alte mure grigie e arancioni: il carcere di San Vittore.

  

Per oltre un anno, il fotogiornalista Nanni Fontana, milanese, classe 1975, ha avuto accesso a un luogo speciale della prigione. La Nave è un reparto di trattamento avanzato per la cura dei detenuti con problemi di dipendenza, gestito dal Servizio dipendenze della Asst Santi Paolo e Carlo. La mostra “In Transito. Un Porto a San Vittore” è parte di una rassegna, “Ti Porto in Prigione”, creata dall’associazione Amici della Nave e che prevede anche un programma di conversazioni pubbliche e dibattiti, con detenuti ed ex detenuti, e altre iniziative come la possibilità di entrare a San Vittore (su prenotazione) dove è allestita la mostra “Gianni Maimeri: la musica dipinta” fino al 20 gennaio in Triennale. Le fotografie di Fontana raccontano la vita nel terzo raggio, un spazio diverso nel panorama carcerario italiano: celle aperte 12 ore al giorno, i detenuti che partecipano ad attività psicoterapeutiche, a gruppi di studio su droga, dipendenze, legalità, a gruppi di canto, musica, teatro, scrittura, yoga, palestra, cartonaggio, la redazione di un giornale (Oblò).

 

La Nave, ci racconta Fontana, fa pensare a un percorso, un orizzonte. I detenuti sono “in transito” anche perché San Vittore non è carcere, bensì casa circondariale: accoglie individui in attesa di giudizio. “Sei in transito perché è lì che costruisci il cambiamento che vuoi portare a te stesso. I detenuti che si avvicinano al terzo raggio sanno che è arrivato il momento di fare un percorso”, di trovarsi in maldestro equilibrio sui tappetini di yoga, fuori dalla loro comfort zone. La macchina fotografica di Fontana racconta questo percorso con l’effetto senza tempo del bianco e nero e dettagli di vivida tenerezza: l’acquarello del Golfo di Napoli dipinto da un detenuto, l’abbraccio dell’anziana volontaria mentre studia con un carcerato, i libri di Irwin Shaw in biblioteca, gli adesivi di Ian Solo e Chewbecca sulla porta di ferro della cella aperta, la riunione di redazione del giornale.

 

La mostra insiste sul senso di un luogo che non vuole essere punitivo, come suggerisce la stessa Costituzione, nell’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. C’è la fotografia di una finestrella all’entrata dell’esposizione. Sul davanzale, tra le sbarre, ci sono pomodorini ancora nella loro scatola di plastica, le zucchine. La stanza è minuscola, l’immagine accanto appositamente troppo grande per il luogo angusto. Ci sono i rumori del carcere: i catenacci di ferro che sbattono, la confusione delle voci. Il senso di costrizione è forte, prima di entrare in una sala ampia, piena di luce, che racconta un’altra storia: quella di detenuti con tagli di capelli da mohicano, tatuaggi minacciosi sulle mani – “revenge” – che cantano in un coro ordinati come chierichetti, si allenano in palestra, partecipano a una lezione di teatro. Un prigioniero guarda attraverso il reticolato fitto di una finestra. Là fuori ci sono piazzale Aquileia, il traffico di viale Papiniano e di una Milano abituata a sfrecciare indifferente accanto a quel carcere in Area C, senza sapere che al suo interno ci sono anche storie di rinascita. “La Nave è un reparto creato ben 16 anni fa: non è un caso che accada a Milano, una città che guarda sempre avanti”, spiega Fontana.

 

Pino ha 41 anni, 15 passati in carcere. Oggi è uno dei volontari presenti alla mostra. È stato due volte alla Nave: “Ciò che funziona là dentro – ci dice – è che ti svegli la mattina e come le persone normali hai un lavoro, una responsabilità che ti fa capire che la vita è fatta di scadenze e impegni. Il ritmo non è quello della larva buttata su una branda. Il carcere però non è questo, questa è la Nave. Se la Nave potesse essere il carcere, sarebbe un successo della nostra società: occorre rieducare la persona, altrimenti esce come è entrata”.

Di più su questi argomenti: