Una mostra su Che Guevara alla Fondazione Feltrinelli (foto LaPresse)

La cattedrale disruptive di una sinistra che (ancora) non c'è

Stefania Vitulli

Un anno di Fondazione Feltrinelli, una “casa della cultura” nuova tra millennial e assenze

Un posto così a Milano non c’era: Fondazione Feltrinelli – 2700 mq su 5 piani di un palazzo della cultura che si vede anche da molto, molto da lontano – fa venire voglia di andarci anche solo perché è alta, trasparente e con quella forma un po’ distopica, che si nota appena risali dal fondo di tutte le fermate di metropolitana in zona o appena ti fai due passi dopo un pranzo da Eataly o lo shopping in corso Como. Zona, quella in cui è sorta la Fondazione poco più di un anno fa, che è, appunto, una delle più ambite della Milano revampizzata, la Milano che sale: Garibaldi-Brera, vessillo, insieme a CityLife, dell’elegante sgomitare global delle archistar. Un posto così a Milano mancava, a dirla tutta: n po’ Londra un po’ Berlino, con il djset promosso dalla libreria al piano terra all’ora dell’aperitivo (e però il dj è “una” dj supermagra in tutona e cuffie giganti che ondeggia appena fuori dalla libreria al piano terra) e, accanto e tutto intorno, un “non-parco” che Marc Augé ne andrebbe fiero, cioè alcuni alberelli che spuntano dal cemento, simbolo inequivocabile che la città l’ha avuta vinta ed è lo skyline a dettare lo stile dei giardini.

  

Un palazzo disruptive in una zona disruptive non può che produrre pensiero disruptive: tutto un piano della Fondazione Feltrinelli è permanentemente occupato dalle migliori menti millennial (noi ne abbiamo viste solo due o tre, ma ci hanno garantito che ce ne sono parecchie) che si fregiano del ruolo di ricercatori della Fondazione. E alcune di queste menti ricercatrici sono così preziose che sono addirittura in condivisione, chessò, con la Normale di Pisa. Stanno nascoste dietro ai trasparentissimi vetri e cementi a studiare tutto il giorno: naturalmente l’avanzata trasformativa delle politiche internazionali, dei movimenti, dei trend topic e altre cose molto cool del pensiero disruptive che a spiegarle ci vuole una formazione pregressa.

 

Perché alla fine questa cosa della disruption è chic e molto milanese, ma poi va spiegata e quindi il rischio è di non farsi capire, passarci sopra e tenersi il dj all’ora dell’aperitivo mentre le migliori menti lavorano solo per pochi coltissimi selezionati visionari, sempre gli stessi. Se trasformi una Fondazione novecentesca come era prima la feltrinelliana, quando dimorava in via Andegari – alle spalle della Scala e poco lontano da casa Manzoni, per citare due topos di una Milano delabré che sta all’opposto del digital – in “Uno spazio di cittadinanza nel cuore di Milano, una casa delle scienze sociali in Europa. Un centro di ricerca per animare il dibattito intorno ai temi centrali della contemporaneità, dalla crisi della rappresentanza alla rivoluzione digitale, dalla sostenibilità al lavoro, dalle trasformazioni urbane alle economie globalizzate. Poi musica, arte, cinema, teatro e danza”, per dirla con la comunicazione istituzionale della Fondazione medesima, devi avere in tasca anche un linguaggio così autoctono e rilevante, così coerente e consistente che sfonda autonomo le barriere delle petizioni, delle community, dei movimenti e si erge a modello concettuale di potenza inequivocabile. Per dirla con anche meno enfasi, insomma, se vuoi essere la “Casa della Cultura” del Nuovo Millennio, a Milano, e aggregare con la tua playlist pluralista la cittadinanza tutta, devi avere un’anima sofisticata ma comprensibile, anticonformista ma accessibile.

 

I numeri per arrivarci ci sono: nel suo primo compleanno Fondazione Feltrinelli ha totalizzato 400 mila visitatori e oltre 200 iniziative, 1.799 ore di studio, 400 ore di dibattito, 90 fra borse di ricerca, tesi di laurea e di dottorato, 300 collaborazioni con università da tutto il mondo, 11 milioni di pagine sfogliate, 100 visite guidate negli archivi, 200 manifesti esposti, 3 chilometri di coda e oltre 40 mila sedie occupate. Per dare qualche numero. Però al momento l’essere sofisticati non si è ancora sposato con l’essere comprensibili: una decina di giorni fa ad esempio i milanesi si sono persi un’occasione di incontro rara proprio in Fondazione Feltrinelli con un signore di nome Geoff Mulgan, che oltre ad essere l’autore di “Big Mind. L’intelligenza collettiva che può cambiare il mondo” (Codice), è ceo di Nesta, la fondazione per l’innovazione britannica e fondatore di Demos, il primo think tank britannico sulle politiche sociali. Sembra interessante, ma delle due l’una: o la sala è piena o la sala è vuota. Questo darebbe un senso di comprensione o di rifiuto all’evento e una chiave di lettura per l’attività di un “centro culturale per tutti coloro che credono in un futuro da condividere”. E invece la sala era mezza piena di cloni di Mulgan, ovvero esperti, pezzetti di pubblico internazionale che conoscono il tipo e invitati illustri. Intervistato da Massimiliano Tarantino, segretario generale della Fondazione, Mulgan ha parlato per oltre un’ora di intelligenza come scelta, anche come appartenenza, di cittadinanza e persino di Milano nello specifico. Ma evidentemente o Milano ha scelto di non essere intelligente proprio quella sera oppure c’è qualcosa che non va.

 

Non pervenuto per il momento nemmeno l’anticonformismo abbinato all’accessibilità: nessuno ha dimenticato lo scivolone della cancellazione, durante la scorsa campagna elettorale, dell’incontro con il filosofo Alain De Benoist, fondatore del movimento culturale “Nouvelle Droite”. “Che cos’è questa iniziativa? Un fascisticamente corretto?”, chiedevano i 600 aderenti alla petizione di 23 ricercatori universitari mobilitati contro l’intervento dello scrittore al ciclo “What is Left/What is Right”. E la Fondazione aveva prontamente cancellato “per evitare manipolazioni”, per poi riabilitarsi, a urne ferme, riaprendo le porte a De Benoist poco più di un mese dopo.

 

Insomma, in attesa che tra poco presentino il programma per il loro secondo anno di vita, si pone per Fondazione Feltrinelli il massimo quesito di sinistra: mi si nota di più se vengo o se non vengo? Meglio essere intelligenti o cool? Puri o efficaci? E’ inevitabile, perché avere un palazzo imponente non basta, se chi lo frequenta finisce “Così, vicino a una finestra di profilo in controluce”.

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