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Gran Milano

Una città con i sogni giusti: il nuovo ciclo di Milano

Maurizio Crippa

La metropoli sta attraversando un momento di giudizio iper critico e una chiacchiera sociale contraria, ma non si ferma: il suo futuro sarà un mix di mercato e welfare. Studentati e housing. Parla Mario Abbadessa di Hines

Milano ha due grandi vantaggi per il suo futuro. Il primo, è uscita dalla crisi molto più tardi rispetto ad altre grandi città. Quindi può imparare dagli errori di programmazione e sviluppo che si sono manifestati in quelle metropoli”. E il secondo vantaggio? “E’ una città di mercato. L’unica in Italia che ha mercato ed è determinata dal mercato”. Ma secondo molti, al contrario, la parola “mercato” è proprio l’origine dei mali di Milano. “Non è così. Innanzitutto il mercato è veloce nell’intercettare il cambiamento sociale. In inglese esiste un’espressione, ‘market timing’, quando metti qualcosa sul mercato devi capire il cambiamento in arrivo e rispecchiare la domanda di quel preciso momento. Milano non ha paura di cambiare e ha la possibilità di farlo”. Non è l’ottimismo che manca a Mario Abbadessa, responsabile per l’Italia del gruppo americano di investimento, sviluppo e gestione immobiliare Hines, presente in trenta paesi. Del resto ha appena firmato la prefazione a un interessante libro del fisico tedesco, nonché stand-up comedian, Vince Erbert, “Non è ancora la fine del mondo” (Liberilibri, anticipato dal Foglio il 25 marzo). Abbadessa sottolinea “un sano realismo e un ragionevole ottimismo basato sui dati di cui disponiamo” e, applicandolo al suo personale campo d’azione, annota: “Per noi il nuovo orizzonte della sostenibilità è un’incisività concreta, urbana, sociale… l’idea di una città policentrica”. E’ un po’ la sintesi del modo di pensare di questo manager quarantenne, Business Administration alla Bocconi e specializzazione in Real Estate Finance prima di approdare a Hines Italy, di cui dal 2019 è Senior Managing Director.

 


Ma per concentrarsi sul nostro rettangolo di gioco, Milano, conversare con Abbadessa aiuta a spazzare via un po’ della fuliggine pessimista che si è posata, più tossica delle polveri sottili, sul “sentiment” della città e sulla sua capacità di guardare al futuro. Milano ha vissuto quasi due decenni di grande trasformazione urbanistica, il suo skyline è diventato iconico, ma anche sociale: è diventata “The place to be”, che ovviamente non significa senza problemi. Ma ora sta passando un giudizio iper critico, e una chiacchiera sociale, contraria: a Milano non si respira, c’è inquinamento, respinge i giovani, costa troppo, è un posto per vecchi. Tutto improvvisamente finito. Lei come la vede? “Io sono un uomo di industria, che fa progetti, non ho spazio per il pessimismo. Dopo momenti di positività ci sono sempre quelli di negatività, i cicli fanno parte della storia e anche dello sviluppo urbano”. Anche a lei sembra che un ciclo si stia chiudendo? “Lo hanno fatto chiudere, direi. Nel senso che un po’ dipende anche da come si sceglie di presentare le cose. La Milano che noi conoscevamo solo 24 mesi fa era il posto migliore d’Europa, si poteva girare a piedi, in un’ora sei in montagna e in due al mare… Ci sono le week, l’arte, la moda. Poi improvvisamente è come se esplodano tutti i difetti: troppo cara, non puoi girare che ti derubano, ci sono gli abusi… Si è passati da una iper esaltazione a una iper denigrazione. Mi sembra eccessivo”. Forse la città è stanca di tirare l’innovazione di tutto il paese? “C’è anche da dire che se oggi prendi un raffreddore sei più esposto ad altri virus, siamo come indeboliti. Per Milano vale la metafora dell’organismo”.

Torniamo all’inizio. L’impressione che Milano abbia le gomme un po’ sgonfie e faccia fatica a immaginare qualcosa di nuovo. Ovviamente parliamo di trasformazione urbanistica, di sviluppo immobiliare, di servizi: sono le macro dimensioni che favoriscono o condizionano la vita delle persone. “Innanzitutto, secondo me Milano è una delle poche città in Italia di mercato. Gli immobiliaristi, gli sviluppatori, gli architetti seguono il mercato ed è per questo che fanno il bene della città, al contrario di quel che qualcuno pensa. Perché alla fine il mercato premia la qualità: se io faccio delle case brutte, è sicuro che le case di livello basso non le affitto, o non le affitto tanto e bene quanto edifici sostenibili, belli, funzionali. Vale per i negozi, gli uffici, i data center. Per questo Milano è costantemente in cambiamento: lo è dal 1945. Se lei andava a San Francisco 15 o 10 anni fa era un’altra città”. Oggi sembra che la città che negli ultimi decenni ha rifatto interi quartieri, ha creato Expo, tiri il freno. Anche come progettualità politica. Mentre il ruolo degli sviluppatori e investitori immobiliari è guardato con un po’ di sospetto. “Per prima cosa, è giusto che su una città ci sia un pensiero comune, gli investimenti vanno certamente ‘educati’ e la parte pubblica deve dare l’indirizzo generale. Ma poi deve lasciare liberi i privati, perché gli imprenditori seguono il mercato e vanno a migliorare le soluzioni”. Forse manca un’idea nuova: dopo il Covid sono cambiate tante esigenze, ad esempio i servizi nei quartieri. Un imprenditore che si occupa di sviluppo e rigenerazione urbana che cosa immagina? Dove si deve guardare per trovare idee, all’estero?  “Milano ha due vantaggi fortissimi. E’ uscita dalla crisi più tardi rispetto ad altre città, quindi può imparare dagli esempi negativi. Prendiamo Londra e Parigi, ovviamente facendo salve le dimensioni. Città stupende, ma denunciano un modello di vita meno accessibile. Oggi a Londra anche le classi benestanti fanno fatica, nella città della finanza! Vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel modello. Se io lavoro 24 ore al giorno, genero ricchezza, ma ho problemi a mantenere tre figli a scuola perché se abiti in centro la scuola ti costa 80 mila sterline all’anno, lo stipendio da noi di un dirigente, non funziona. Perché a ricasco tutti gli altri redditi sono ricacciati lontano. Parigi ha la stessa situazione critica”. Con in più che il modello sociale di Parigi, le sue banlieue è anche peggio. “Tutte le città che, in un contesto capitalista, hanno seguito un modello iper liberista, privo di regole di mercato, hanno questo tipo di problemi, mi pare. Se si vogliono i servizi sotto casa, e il bar sempre aperto, una soluzione per chi quei servizi garantisce la si deve trovare. Non possiamo dimenticarci del welfare. Milano da lì può imparare che i modelli esasperati non portano nulla di sostenibile. Per nessuno”.

E il secondo esempio negativo? “Parliamo di sviluppo abitativo sostenibile, soprattutto verso i giovani e gli studenti – che è un aspetto centrale di quanto facciamo noi di Hines, non specificamente di housing sociale. Non ha funzionato neanche il modello iper assistenziale adottato da Amsterdam, Berlino o Dublino. Lì hanno ragionato così: i prezzi aumentano troppo (perché non c’è nessuna fuga dalle città, ricordiamolo, sono solo le città a essere attrattive) e allora mettiamo un equo canone, un tetto massimo. Che però, in sostanza, ha generato un blocco della nuova offerta. La domanda è un fiume, non è che puoi fermare gli studenti, e questo ha generato prezzi alle stelle, anche perché non si sono realizzati nuovi alloggi. E infatti ora si sta tornando indietro”. Dunque il mercato artificialmente calmierato, di cui si parla molto da noi, non funziona? C’è chi dice: se sei proprietario di un appartamento, e vuoi affittarlo a 2.000 euro, ma ti ti impongono al massimo 1.250, il risultato è che ti orienti all’affitto breve… “Nel caso nostro, sviluppatori ma anche gestori di lungo periodo di immobili, l’imposizione di un tetto troppo basso porta il risultato che non costruisci più, perché non ci stai con i costi”. Dunque Milano può cercare una via mediana. La pressione sull’abitare è alta, soprattutto per gli studenti. Hines è uno specialista di questo segmento.  Dal 2016 a oggi in Italia ha realizzato investimenti per oltre 7 miliardi, soprattutto a Milano e Firenze, puntando su una logica di lungo termine. Ci sono operazioni “trophy asset”, come Cordusio 2.0 o Torre Velasca. Ma una parte consistente è proprio lo student housing che a Milano ha già prodotto i progetti di via Col Moschin, adiacente al campus della Bocconi e di Ripamonti 35, ex Consorzio agrario, entrambi gestiti da Aparto, piattaforma di Hines specializzata nel segmento degli studentati. “Faccio un esempio concreto, per spiegare cos’è una logica sostenibile: lo studentato di Col Moschin, intervento di cui siamo orgogliosi. Noi abbiamo comprato 6.000 metri quadri – è stato il primo esempio a Milano – e il Comune ce ne ha messi a disposizione oltre il doppio, con l’accordo per destinare il 30 per cento dei posti letto creati a un prezzoli 450 euro per il valore immobiliare e di 650 euro con i servizi e il tempo libero inclusi (intrattenimento, sport, attività di community). Se oggi uno studente vuole andare al Polimi, quindi cerca un appartamento in Città studi, si parte da 900 euro senza servizi. Ma l’altro 70 per cento è a libero mercato, lo affittiamo anche a studenti che vengono dall’estero a prezzi che permettono un guadagno e di garantire quel 30 per cento. E’ un modello vincente, perché io offro lo stesso servizio  e gli stessi livelli ma tramite una massimizzazione di chi ha di più ottengo una perequazione, finanzio di fatto una parte del diritto allo studio. E creo valore per tutti gli stakeholders pubblici e privati”. Modello replicabile? “Deve esserlo, se invece intervieni con sistemi troppo rigidi blocchi l’iniziativa di impresa: le strategie di investimento sono logiche. Quando si dice attrattività, bisogna ragionare su queste potenzialità sostenibili da più punti di vista”. I fatti stanno dando ragione. Oltre a operazioni come l’acquisizione del progetto di Scalo Farini, con Unicredit e Prelios, e sull’area ex Falk di Sesto, Hines continua nell’housing studentesco. “Abbiamo in programma 5.000 posti letto, di cui 500 a Firenze. Oltre a Col Moschin,  Aperto Milan Ripamonti prevede 700 posti, altri mille in via Durando al Politecnico, e 700 a Sesto. Sempre con questa logica di sostenibilità sociale ma anche finanziaria”.

Un altro tema è la trasformazione della domanda abitativa. Dopo il Covid sono cambiate le esigenze, al contempo Milano diventa una città per ricchi e per anziani. E le famiglie, i giovani? Può risolvere tutto la mano pubblica? “Anche qui, Milano può studiare una sintesi di quello che chiamiamo sviluppo sostenibile: che deve essere un sistema liberale, ovviamente con regole ma con libertà di fare. Un vantaggio di Milano è che i ceti produttivi hanno sempre collaborato con la pubblica amministrazione nell’evoluzione e nella cura della città. Oggi Milano è la città in cui i settori privati, e non solo nell’immobiliare, anche convergendo da altre zone d’Italia, si mettono al lavoro e realizzano iniziative legate al bene comune. Dall’istruzione ai servizi”. La richiesta, e l’indicazione di mercato, va verso nuovi quartieri dove il residenziale si integra col sociale, i servizi. Ma come attirare i giovani o il ceto medio? Con l’equo canone o i limiti a Airbnb? “Le faccio un altro esempio. Noi – e fortunatamente non solo noi – stiamo lavorando a progetti di quartieri che sono una sintesi tra il primo modello che le dicevo: una città sviluppata sulla redditività ‘market timing’ ma anche sulla destinazione sociale. Perché, come sappiamo, quando i progetti di housing sociale li ha fatti solo il pubblico è stato tutto più complesso. Le case Aler sono occupate al 30 per cento, evidentemente qualcosa che non torna nella gestione, se poi non ci sono i mezzi per fare le manutenzioni. Il Comune deve imporre standard ai privati, poi deve lasciar fare al mercato”.
Oggi il sogno è abitare diversamente: il terrazzo o il giardino condominiale, lo spazio per il lavoro… La città in quindici minuti, i negozi di prossimità. Come renderlo possibile? “Premessa: tutto quello che dice è esatto, ma resta il piccolo problema che non è che tutte le persone d’un tratto si ritrovano lo stipendio doppio per il locale in più o il giardino… E’ qui che cambia la filosofia”. Ci spieghi. “Le faccio l’esempio del nostro intervento all’ex Trotto. Abbiamo 700 alloggi a canone calmierato – una formula diversa dal canone sociale – in cui offriamo appunto quel tipo di servizi. Quindi la casa, diciamo 90 metri quadri, ma al piano terra gli spazi di coworking privati; c’è la palestra, una sala per socializzare o organizzare la festa per tuo figlio, il terrazzo condiviso. Accessibili, non esclusivi, per il ceto medio e i giovani. “In più, dove ci sono le vecchie stalle del Trotto, ci saranno i negozi di vicinato, l’asilo, spazi per la formazione gestiti da Portofranco. Costruire, ma con un occhio generale alla città”. E’ la differenza tra l’immobiliare tradizionale, il trader e una logica di lungo termine, oggi si dice di investitori pazienti. “Noi tendenzialmente investiamo per rimanere proprietari o gestori degli immobili. Questo è la garanzia che siano fatti con una certa logica. Ultimo esempio, via Lampedusa, nel sud di Milano, sarà un complesso chiuso con 50 mila metri quadri di parco. Qui faremo anche agricoltura urbana. E’ il contrario della speculazione a breve”.

Che cosa serve da parte della mano pubblica? “Dovrebbe soprattutto agevolare. Per gli studentati nei paesi nordici hanno fatto degli sportelli dedicati, un fast track: se io sono uno che semplicemente vuole costruire appartamenti lavoro nei canali dell’urbanistica. Se invece realizzo una residenza per studenti, o per anziani a canoni accessibili c’è un altro sportello, tempistica 12 mesi e si parte, la burocrazia è esternalizzata”. A proposito di regole e di leggi, Milano rischia di essere bloccata da inchieste che hanno messo in difficoltà costruttori e Comune. “Non voglio entrare nel merito delle inchieste, le imprese hanno bisogno di certezze normative e interpretative. Auspico che politica e magistratura possano sciogliere presto questi nodi”. Insomma non sarà crisi, ma qualche problema esiste… “Sa cosa mi vede ottimista? Che Milano oggi attrae un tipo di capitale, di investitori, responsabili, ‘utili’, con la visione giusta, paziente. Pensano a una sostenibilità nel tempo della propria impresa. Non vanno ingabbiati”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"