GRAN MILANO

Per non morire di rendita. Idee attorno all'analisi di Dario Di Vico 

Una “città-premium” che funziona (bene) solo per i ceti alti, ma allontana giovani e i ceti medi, senza più coesione sociale? Tre anni di politica per cambiare rotta

Città-capitale della meritocrazia, della cultura del rischio, Milano rischia di diventare il Bengodi della rendita, scriveva qui Dario Di Vico. Girotondo di idee attorno alla sua analisi.


 

Crescere come Città metropolitana per la vera coesione sociale


Negli ultimi anni non c’è dubbio che Milano sia diventata una piccola metropoli internazionale. Dal 2015 ha conquistato un’attrattività unica, crescendo in termini di qualità degli eventi e di presenze turistiche, passando dai 6,6 milioni di visitatori pre Expo agli attuali 8,2 milioni. Ciò ha inevitabilmente comportato la nascita di nuovi problemi, tipici di un’area urbana in espansione, come quelli della sicurezza e del caro vita. Si sta proiettando però un’immagine di città a vocazione turistica che rischia di smarrire i propri fondamentali identitari come la sua fortissima proiezione al fare, che vede le imprese – anche grazie al loro spirito innovativo – essere generatrici di benessere e di coesione sociale per le comunità, di cui sono da sempre custodi. Per tornare a essere la città “col coeur in man” Milano ha assoluto bisogno di crescere. Crescere innanzitutto nei confini e nelle opportunità per i giovani. Milano ha bisogno di diventare, a tutti gli effetti, Città metropolitana e di ragionare come tale per fronteggiare le sfide ambientali e del caro città con strumenti adatti: mi riferisco, in particolare, alle necessità di disporre di risorse adeguate, di realizzare infrastrutture moderne e di adottare una visione sempre più europea. In quest’ottica, la recente convergenza tra il sindaco Beppe Sala e il presidente Attilio Fontana sul tema delle autonomie con una Città metropolitana effettiva – dove operano 356.836 unità locali che producono 178 miliardi di euro di valore aggiunto – fa ben sperare sulla messa a terra di un progetto fondamentale per un territorio come il nostro a forte vocazione imprenditoriale. I giovani, inoltre, devono diventare protagonisti e, in tal senso, il merito e le competenze devono tornare ad essere centrali. Abbiamo bisogno di loro per confermare Milano come centro dei saperi, della ricerca, del saper fare. Ha ragione Dario Di Vico: in questi tre anni la città deve lavorare in accordo con le altre istituzioni e gli attori  del territorio per disegnare un nuovo modello di sviluppo che la possa consolidare come il traino dell’economia italiana con ricadute positive in termini di coesione e accoglienza. 
Alessandro Spada, presidente di Assolombarda (testo raccolto)


Pubblico e privato, serve collaborazione anche per l’housing sociale 


L’articolo di Dario Di Vico esprime considerazioni delle quali si sente parlare da tempo: Milano sta perdendo attrattività. Siamo davanti a un momento tipo “sliding doors”. Milano è sempre stata la città più attrattiva d’Italia, riconosciuta a livello europeo: il sogno americano che diventa realtà. In questo momento stiamo rischiando di perdere questo primato. Sicuramente c’è la situazione congiunturale che ha spinto in questa direzione, l’impennata dei prezzi – consideri che nell’ultimo anno e mezzo i costi di costruzione sono aumentati del 30 per cento – le politiche monetarie della Bce che hanno fatto alzare i tassi d’interesse. Di conseguenza Milano sta diventando una città esclusiva, una città solo per chi se la può permettere. La forza della nostra città era quella di avere un mix di persone che aiutavano a renderla più dinamica, creativa, attrattiva. Ecco Milano deve tornare la città che accoglie tutte le categorie che vogliono costruire qui il loro futuro, a partire dai giovani che vogliono venire a Milano per studiare. Le risposte ci sono: in una situazione così drammatica bisogna lavorare assieme, pubblico e privato. E questi tre anni sono cruciali. In questo momento noi stiamo dialogando con l’amministrazione comunale per la revisione del Piano di governo del territorio. Non ritengo ci sia bisogno di risorse straordinarie da parte dello Stato, bisogna lavorare assieme e fare in modo che il pubblico ponga le regole con noi, per fare edilizia libera ma anche housing sociale, edilizia convenzionata. Tutta quell’offerta che oggi manca nella nostra città. Lavorando insieme le cose si possono fare. Servono forme nuove di partenariato pubblico privato. Altro tema: ragionare nell’ottica di una città metropolitana che ha bisogno di strutture e tecnologia di sistema per l’intera area. Noi siamo a disposizione, chiediamo che l’amministrazione ci ascolti.
Regina De Albertis, presidente Assimpredil Ance Milano (testo raccolto)


Una Milano “Boston” capitale dei saperi. Più campus, più studenti 


“Milano-premium” alla luce della crescente complessità ben descritta da Dario Di Vico o addirittura “Milano-Gotham” come viene denominata da chi enfatizza il lato oscuro della città di questi anni? Nel bene e nel male, una metropoli presenta tante sfaccettature che si prestano a diverse chiavi di lettura. E Milano, dopo Expo 2015, ha acquisito a tutti gli effetti lo status di metropoli europea. A noi piace leggerne una terza, che esprime i valori di un posizionamento che le permetterebbe di conservare la sua tradizione di operosità e integrazione ambrosiana con la modernità che la scienza in epoca di intelligenza artificiale e sostenibilità richiede di avere: “Milano-Boston”. In analogia ai numeri relativi della capitale culturale americana, Milano ha 220 mila studenti universitari che frequentano istituti altamente competitivi a livello internazionale – dai campi dell’ingegneria ed economia, a quelli umanistici e medicali. È diventata un punto di attrazione per studenti, ricercatori e professori. Un magnete di rientro dei cervelli opposto al “brain drain”, che da sempre attanaglia il belpaese. Si parla di “Milano-premium” del Quadrilatero, di Gae Aulenti e di City Life. Ma Milano si espande in Bicocca con un ex distretto industriale che diventa accademico e che attrae importanti multinazionali. In Bovisa, con la Goccia di Renzo Piano del nuovo Politecnico. Al MIND Milan Innovation District, con anche realtà come lo Human Technopole, che in soli quattro anni ha già attratto 270 scienziati da 32 paesi differenti. Tutto bene quindi? Ovviamente no. Alcune studentesse la scorsa primavera hanno iniziato una protesta dormendo in tenda in Città Studi. Ci sono soluzioni nel medio termine, come lo scalo di Porta Romana con le 3.000 residenze di Milano-Cortina 2026. Ma non bastano. Come far prevalere questa o altre visioni senza soccombere fatalmente a una Milano per ricchi e meno inclusiva? Occorre, come ben osserva Maurizio Crippa, pensare al “come”. Occorre cioè anzitutto fare una cosa difficile e cioè “decidere”. E, poi, “fare”. E soprattutto nel fare occorre insistere nel favorire le collaborazioni pubblico-privato che esprimono la chiave di lettura degli investimenti di una moderna metropoli europea.
Gianmario Verona, presidente della Fondazione Human Technopole

  
Vicina all’Europa ma frenata dal sistema paese. Scelte per i giovani

Non ho una visione così negativa (come quella di Di Vico, ndr) della città. Ci sono dei nodi da sciogliere, è evidente. Da un lato l’amministrazione è in difficoltà perché fa fatica a confrontarsi con l’attrattività che riescono ad avere le altre grandi città europee, anche perché è all’interno del contesto italiano e subisce i limiti delle politiche espresse dal paese. La mia impressione è che Milano sia molto più vicina – nonostante le sue difficoltà – alle altre grandi città europee di quanto l’Italia sia vicina agli altri paesi europei. Il problema è che deve confrontarsi con un sistema paese che ha molti limiti, con politiche che fanno fatica a promuovere le potenzialità del paese e non riescono a risollevarlo. Dal punto di vista demografico, la natalità a Milano è sui livelli della media italiana, le altre grandi metropoli europee tendono ad avere una natalità più bassa rispetto al proprio contesto nazionale. Le grandi città sono molto più complesse, attraggono persone molto più orientate alla carriera e al lavoro, tendono ad avere processi d’invecchiamento e di bassa natalità rispetto al contesto. Il limite dell’amministrazione – oltre a essere nel contesto italiano – ruota attorno a due punti, sui quali bisognerebbe far molto di più. Il primo. Le grandi città sono complesse e l’Italia soffre per le deboli politiche familiari e di sostegno alla natalità espresse a livello nazionale. Chi vive con una famiglia a Milano soffre difficoltà ancor più accentuate. Concretamente la città dovrebbe investire di più sui tempi di vita e di lavoro, armonizzarli meglio, mettere nelle condizioni chi decide di avere dei figli, di poter contare su misure e strumenti in grado di compensare il gap italiano. Più servizi per l’infanzia, come i nidi a un costo accessibile, la possibilità di avere un doposcuola per famiglie dove i due genitori lavorano, cosa assai più comune a Milano. Il secondo tema riguarda i giovani stessi. Qui c’è il problema delle politiche abitative, su cui si dovrebbe fare molto di più, soprattutto per chi non ha un reddito consolidato. E poi occorre una capacità d’inclusione per chi arriva, perché le grandi città funzionano se sono attrattive verso i giovani, basta vedere Berlino, Parigi, Londra, Monaco, che hanno una forza di attrazione enorme verso i 25-40enni. Perché i giovani trovano i servizi necessari che consentono loro di rimanere e di costruire una famiglia. Situazione molto più debole a Milano, che ha capacità attrattiva ma non abbastanza forte per garantire a questi ragazzi progetti di vita.
Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica (testo raccolto)

 
Politica e governance devono ritrovare i valori comunitari ormai perduti

 Competitiva, affascinante, seduttiva e capace soprattutto di attrarre imprese, talenti e investimenti, tagliando fuori però chi non riesce a starle dietro. Così è Milano, e il 35esimo posto assoluto nella particolarissima classifica delle città più attraenti del mondo la dice lunga sulla sua incontrastata leadership economica. Nel caso del capoluogo lombardo, quindi, l’immagine della città-calamita, capace nello stesso tempo e con la stessa forza di accogliere ed escludere, sembra aver soppiantato quella della città-faro, cui nel lontano 1910 alludeva il socialista Filippo Turati, evocando, in vista delle elezioni municipali, il profilo virtuoso di una Milano concreta, operosa, capitale morale del paese, e la visione politica di un Comune autenticamente popolare. Di qui, dunque, il focus su quel nesso inscindibile di competizione meritocratica e inclusione sociale che per quasi mezzo secolo, nel secondo dopoguerra, ha rappresentato il vero tratto distintivo di Milano. Nel corso degli ultimi trent’anni questo equilibrio è però venuto progressivamente meno e, insieme a questa storica peculiarità, Milano è andata smarrendo quella solida visione politica, culturale e valoriale necessaria per tenere veramente unita la comunità e affrontare, governandola al meglio, la sfida del cambiamento, la cui frontiera ha peraltro sempre attraversato la città. In mancanza di uno strutturato disegno politico-strategico, il risultato è stato quello di una perdita di efficacia della governance politico-amministrativa, che ha così finito, in molte occasioni, con l’andare a rimorchio dei grandi fondi d’investimento, quasi cedendo loro l’iniziativa soprattutto sul fronte urbanistico-abitativo. Di qui la progressiva difficoltà a mantenere un altro storico punto di forzo di Milano: la capacità di connettere e far coesistere tra loro le diversità. Per tornare ad essere un autentico faro nazionale, più ammirato che invidiato, Milano deve anzitutto attingere dalla lezione della sua storia. E deve tornare soprattutto a esprimere una visione di comunità, capace di andare oltre la contingenza, di criticare le rendite di posizione e di esaltare fervore, spirito di intrapresa, operosità e solidarietà.   
Enrico Landoni, storico

 
Mobilità, logistica e altre scelte

Non è una stagione fortunata per la civica amministrazione e le parole di Di Vico fotografano bene la situazione. Sullo sfondo c’è il tema dei giovani in una città sempre più difficile. Ho la fortuna di presiedere il Capac ed è un osservatorio importante per capire le loro esigenze. Abbiamo ottenuto dei contributi importanti, anche se Sala, intervistato dalle Iene su uno dei nostri progetti, “Prendi in casa uno studente” (con la crisi degli alloggi), ha mostrato di non esserne informato. Sarà nostra cura ragguagliarlo. Col Capac arriviamo a 1.300 studenti che ogni giorno imparano l’arte dell’accoglienza, soprattutto in cucina. Certo la situazione è difficile per tutti. E a proposito di difficoltà, la vicenda di San Siro è emblematica e l’incertezza mostrata dal comune, dietro le scelte discutibili della Sovraintendenza, non ha aiutato. Anche i problemi della mobilità restano tali, anzi peggiorano. L’amministrazione gioca le sue carte nel trasformare Milano in una città lenta. Ma questa metropoli se perde la sua velocità, la voglia di fare, rischia di scadere, non sarà più la Milano attrattiva dell’Expo. La città ha 182 chilometri quadrati ma compete con capitali europee più grandi di tre o quattro volte. Ha sempre vinto (fino a oggi) grazie allo spirito ambrosiano. Ci hanno sempre preso garbatamente in giro dicendo che il milanese va sempre di corsa, ma nelle altre città camminano a passo lento… Andare contro questa nostra vocazione può essere un grosso problema. Poi ci sono troppe differenze tra centro e periferia. La mobilità è un bene primario e noi abbiamo fatto proposte concrete, per ripensare l’intero sistema. Occorre, prima di tutto, più gradualità nell’impiego dei veicoli elettrici. C’è il nodo logistica, che va governato. Occorrono molte piazzole di carico e scarico in grado di consentire la programmazione delle consegne in rete. Si parla di guida autonoma ma come farà un veicolo a trovare una zona di consegna se oggi siamo alla sosta in seconda e terza fila. Contiamo sugli ultimi tre anni di questa amministrazione per ripristinare quel dialogo, necessario, che si è un po’ appannato.
Simonpaolo Buongiardino, presidente di Assomobilità e Capac Politecnico del commercio (testo raccolto)

 
Interventi a cura di Daniele Bonecchi

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