Beppe Sala - foto Ansa

Gran Milano

La Milano "città-premium" non genera più coesione: come non buttare tre anni

Dario Di Vico

Beppe Sala non è mai stato in difficoltà come ora: il capoluogo lombardo non attira più. Questa sarà la maggiore sfida per l'amministrazione nei prossimi mille giorni prima del rinnovo del Consiglio comunale

È sempre più evidente, giorno dopo giorno, che Beppe Sala non si è mai trovato in difficoltà come adesso. Quasi costretto nell’angolo e sicuramente prodigo di piccate repliche quotidiane. L’immagine è quella di un pugile stanco e il rischio – per la città – è che attorno ai disagi politici del sindaco parta una campagna elettorale lunga tre anni, con una destra molto aggressiva in termini di comunicazione e decisamente speranzosa sull’esito finale. Ma la città stessa può permettersi di consumare un triennio fatto di botte e risposte quasi esclusivamente confezionate con un fine mediatico-elettorale? I mille giorni che ci separano dal rinnovo del Consiglio comunale sono decisivi per gli itinerari economico-finanziari della città e quindi non possono essere considerati una mera parentesi della lotta politica. La strada intrapresa da Milano almeno dalla metà degli anni Dieci è quella della sua “globalizzazione” ovvero grande capacità di attrarre capitali puntati sull’immobiliare, estesi progetti della cosiddetta rigenerazione urbana, aumento vertiginoso delle presenze turistiche, tentativi di allargare la specializzazione di città della moda e del design acquisendo connotati nuovi da città universitaria e del sapere.

Se questo è il tragitto, è maturata però nelle classi dirigenti milanesi l’idea di una linearità, come se da qui alla meta ci fosse davanti a noi solo un percorso incrementale di successi: la globalizzazione come continuo accrescimento di valore. Purtroppo non è così, le dinamiche che possiamo osservare sono molto più complesse dell’ottimismo ambrosiano e stanno generando reazioni assai differenti e numerosi effetti collaterali. A cominciare dal nesso progresso/coesione. La modernizzazione di Milano in tutta la sua prima fase è riuscita a garantire quello che gli economisti chiamano “sgocciolamento” ovvero ricadute positive anche sui vagoni intermedi e di coda. Gli eventi a ripetizione tiravano comunque la crescita e la successiva redistribuzione. A cambiare le carte in tavola ci ha pensato però l’inflazione, tassa che notoriamente spacca le società, allunga a dismisura le distanze, mette gli uni contro gli altri. Il risultato della combinazione tra globalizzazione e inflazione la possiamo sinteticamente catalogare come l’avvento di una città-premium. Fatta a immagine e somiglianza di quelle élite che possono pagare senza battere ciglio il posizionamento alto di gamma. Del resto la corsa degli investimenti va esclusivamente in quella direzione, privilegia la fascia alta e altissima. I prezzi diventano un gioco di società e si prospettano abitazioni-premium, alberghi-premium, consumi-premium, affitti-premium. È un investimento sicuro, il lusso tiene e remunera il capitale mentre scommettere sui consumi dei ceti medi di main street non è altrettanto sicuro, non ha basi certe di ampliamento del mercato e finisce per essere derubricato.

Così facendo però Milano-premium perde il suo carattere inclusivo, quella capacità di aggregare le varie fasce sociali che pure ha fatto storicamente la sua fortuna. Quel certo interclassismo ambrosiano che è stato il retroterra di una politica pragmatica e di amministrazioni continuiste. Milano oggi non riesce più a onorare la promessa fatta a chi l’ha scelta e la sceglie per migliorare la sua situazione professionale, il suo capitale umano, il livello di reddito, le chance di mobilità verticale. La risposta che viene fuori è addirittura quella di un rischio di retrocessione, di non riuscire a tenere il passo con il costo della vita e della globalizzazione della città. È il turista americano che detta tempi e tariffe, lui è in grado di pagare qualsiasi scontrino e non è certo una figura che possa tenere assieme le diverse anime della città e un corpo sociale che si presenta largo e lungo.

Ma non è tutto. L’altro tradimento di sé stessa che Milano rischia di consumare è quello con il merito. Città-capitale della meritocrazia, della cultura del rischio, Milano rischia di diventare il Bengodi della rendita. Il match winner di questa stagione è il proprietario delle mura, siano esse le mura di un negozio o di un appartamento. E’ lui che stabilisce la posta in gioco, che determina il tourbillon delle aperture e chiusure delle boutique e degli esercizi commerciali, dei ristoranti. Un sito commerciale cambia insegna alla velocità della luce, gli allestimenti si susseguono ma a tirare il filo è il proprietario delle mura che cerca di massimizzare la sua rendita. Di far valere la sua golden share. Riscrive il palinsesto della città esercitando il suo potere negoziale, seleziona darwinianamente le chance degli operatori e soprattutto non rischia mai nulla. Sta giocando al rialzo da anni e ha la presunzione di poter continuare a farlo all’infinito. E del resto il contesto politico-amministrativo non sembra porgli vincoli.

Città-premium e prevalenza della rendita mutano nel profondo la cultura urbana e rendono politica e amministrazione residuali. Tutt’al più lasciano loro lo spazio della querelle sulla sicurezza. La verità è che si sono messi in moto meccanismi da città globale che nessuno sembra in grado di stoppare. Nemmeno negli effetti più prosaici a valle come la carenza di taxi, la pervasività della mala movida, l’emergere del conflitto delle seconde generazioni di immigrati sub specie baby gang. In tutto ciò è evidente, come già detto, la difficoltà dell’amministrazione a registrare i mutamenti, ad aggiornare la rotta e la conseguenza della paralisi è l’avvio di una campagna elettorale lunga tre anni. Ma le trasformazioni strutturali della città non permettono un’amnesia così lunga, richiedono risposte sicuramente più veloci. E in fondo tra le città globali Milano ha un vantaggio: è piccola e quindi teoricamente più governabile. Tutto ciò, infine, senza dimenticare il ruolo importante che la città di Ambrogio ha sempre avuto per l’integrazione nazionale e che oggi rischia di essere depotenziato o addirittura annullato

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