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Il caso di Digital 360 e di altri che crescono in fretta. Addio alla Borsa per i ricchi equity

Mariarosaria Marchesano

Il fenomeno di addio alla Borsa non è circoscritto solo alle grandi imprese: sul listino delle piccole aziende di Piazza Affari qualcosa comincia a non funzionare. Il segnale sono tre opa finalizzate al delisting in tre giorni

Tre opa finalizzate al delisting in tre giorni (Digital 360, Reevo e Labomar) sono il segnale che anche sul listino delle piccole aziende di Piazza Affari (l’ex Aim, oggi Egm) c’è qualcosa che comincia a non funzionare. Per carità, a fronte di tre che lasciano ce ne sono dodici-tredici che da inizio anno sono sbarcate proprio su questo segmento, ma è chiaro che il fenomeno degli addii alla Borsa, che sembrava circoscritto alle big, sta contagiando anche le piccole e medie imprese. In particolare, a fare questa scelta sono realtà con una crescita talmente accelerata per la quale accettare le offerte dei super ricchi fondi di private equity – i quali, probabilmente, hanno terminato la caccia grossa sul listino principale – diventa una scelta quasi obbligata.

Una storia emblematica è quella di Digital 360, azienda milanese considerata anche molto “cool” perché nasce nel 2012 da un’idea di cinque professori del Politecnico (Andrea Rangone, Mariano Corso, Alessandro Perego, Gabriele Faggioli e Raffaello Balocco). E’ diventata un vero caso perché dall’anno della quotazione (2017) a oggi il suo valore di mercato è passato da poco più di 17 milioni a 110 milioni e cresce a un tasso medio annuo (in gergo tecnico si chiama Cagr) del 44 per cento grazie a una trentina di acquisizioni (l’ultima, rilevante, in Spagna). Digital 360 di mestiere fa qualcosa che solo quindici anni fa neanche esisteva: insegna alle imprese la trasformazione digitale del marketing e delle vendite supportandole poi nella rivoluzione tecnologica che occorre per raggiungere l’obiettivo. Seguendo questa mission la società è diventata anche editore perché produce, attraverso siti dedicati (per esempio, Economy Up), la massa di informazioni che serve lo stesso bacino di imprese. Insomma, un business integrato e trasversale che viaggia attraverso algoritmi e motori di ricerca. Perché allora lasciare la Borsa? “L’importante progetto di crescita di Digital 360 richiede risorse adeguate: il fondo investe in questa operazione più di 60 milioni di euro, con la disponibilità a investirne, a patto di accordi su termini e condizioni, ulteriori 40 milioni”, spiega il chairman della società, Andrea Rangone, su Linkedin.

Il “fondo” è Three Hills Capital partners, operatore di private equity con 2,3 miliardi asset gestiti. Resistere a qualcuno che ti mette 100 milioni sul tavolo per farti crescere, accettando che i soci fondatori mantengano il controllo, sarebbe stato da matti. Del resto, la liquidità nelle casse dei private equity è aumentata a dismisura nel lungo periodo dei tassi a zero, in cui fare approvvigionamento non costava quasi nulla, e adesso hanno l’esigenza di investirla e di farla fruttare. Un fenomeno che sta alimentando in tutte le piazze finanziarie del mondo il  delisting, che in Italia è, però, un po’ più preoccupante visto la scarsa rilevanza del mercato borsistico rispetto al Pil. Eppure, poche settimane fa il governo Meloni ha varato una riforma rendendo più snelle e veloci le procedure e meno onerosi i costi (inoltre, c’è il bonus quotazione fino a 500 mila euro alle piccole società). Non basta? “La riforma non affronta il nodo della liquidità del mercato borsistico, che si può risolvere con uno strumento adeguato che intendiamo proporre al governo”, dice al Foglio Giovanni Natali, presidente di Assonext, l’associazione che raggruppa le aziende quotate su Egm (circa 200). Il problema era stato toccato lo scorso anno anche dall’imprenditore immobiliare Manfredi Catella quando, nell’annunciare l’intenzione di delistare Coima, aveva detto in modo esplicito che sarebbe stato più facile realizzare i progetti di sviluppo fuori dalla Borsa che dentro. Se questo è vero per il listino principale, lo è ancor di più per quello delle piccole, che è molto meno liquido ed è più difficile – successivamente alla quotazione - trovare sufficienti capitali per finanziare lo sviluppo. E allora? “Vorrei dire che tante opa sull’Egm, peraltro anche ben pagate, non fanno altro che confermare il dinamismo di questo mercato che sta facendo guadagnare chi ci investe – prosegue Natali – ma è anche vero che occorre trovare il modo di aumentare la liquidità in circolazione a beneficio dei progetti di crescita delle imprese. Per questo come Assonext porteremo al sottosegretario Freni la proposta di attivare un ‘fondo dei fondi’ che non investa in modo diretto, perché non abbiamo bisogno di un’altra Iri, ma che acquisti quote di selezionati fondi che a loro volta investono sulle quotate”.