Festeggiamenti della Lega davanti al Pirelli con Attilio Fontana (Lapresse)

Granmilano

È possibile rifarsi una vita (politica) dopo aver lasciato la Lega? Tre casi dicono di no

Cristina Giudici

I “transfughi” fuoriusciti dal Carroccio per tentare nuove vie autonome hanno perso, talvolta anche male. Viene da chiedersi se chi abbandona possa riuscire a costruirsi una nuova identità nei partiti tradizionali

Alla prima lettura degli esiti elettorali in Lombardia, ha vinto Attilio Fontana con il 54,67 per cento e il resto è letteratura. Ma, come verranno scandagliati gli abissi dell’ennesimo tonfo della sinistra, si può provare a scandagliare un voto dell’universo leghista che ha più sfaccettature. A partire da una Lega “di Capitan Salvini” ha preso in tutta la Lombardia meno di mezzo milione di voti, mentre la Lista Fontana ha fatto meglio delle stesse previsioni leghiste. ma è interessante anche chiedersi perché i “transfughi” fuoriusciti dalla Lega per tentare nuove vie autonome abbiano perso. E talvolta anche male. 

 

A cominciare dai diversi autonomisti candidati nella lista civica di Letizia Moratti. Certo, ha pesato l’esito della sfida della Moratti, che pensava di scombinare i giochi attraendo voti sia da destra sia da sinistra, e invece con il sostegno della coalizione del Terzo Polo si è fermata a 9,87 (la sua lista si è fermata al 5,30 per cento). Così come ha pesato l’astensionismo che ha raggiunto un picco mai registrato in Lombardia. Ma viene da chiedersi se chi esce dalla Lega, per quanto fragile e destrutturata sia diventata, possa riuscire a costruirsi una nuova identità politica nei partiti tradizionali e “centralisti”. Davide Boni che è stato presidente del Consiglio lombardo nel 2010 e allora – prima che arrivasse Salvini, quando la Lega si chiamava ancora Lega Nord, prese ben 13.213 preferenze – a questa tornata ha avuto solo 364 voti. Sono passati dodici anni dalla sua ultima discesa in campo e un po’ l’aveva messa in conto, la sconfitta, anche perché a ogni confronto a cui ha partecipato gli hanno chiesto perché non si fosse candidato nel centrodestra, o meglio nella destra-centro dominata da Fratelli d’Italia nella coalizione che guiderà la Regione. E gli hanno chiesto perché si fosse candidato con il Terzo Polo, “percepito come una costola della sinistra”, osserva. Alla faccia di chi aspira a superare il bi-populismo, come Calenda e Renzi. “Ho fatto una campagna elettorale solo sui temi che mi stanno a cuore, legati all’autonomia, agli interessi dei lombardi, ma senza la struttura di un partito alle spalle è stata un’impresa impossibile. Non penso come altri che sia finita qui, che fuori dalla Lega di Salvini non ci sia spazio per un nuovo soggetto politico, ma si tratta di un processo lungo e culturalmente complesso”, ci ha detto.

 

Più incomprensibile invece il caso di Gianmarco Senna, imprenditore della ristorazione che ha avuto sempre un consenso personale e trasversale consistente ed è stato presidente della commissione Attività produttive nella legislatura che si è appena conclusa. Candidato a Milano nella lista Azione-Italia viva che nel capoluogo lombardo ha eletto solo Lisa Noja, ha avuto 1.053 preferenze. Senna sapeva che la sfida era complessa, ma a chi gli rimprovera di essere un disertore lui replica che a tradire semmai è stata la Lega che ha cambiato orizzonte politico. Infatti quando gli hanno proposto di passare a FdI, dove avrebbe avuto maggiori chance ha risposto “anche no”. “Ma ho voluto giocarmela ugualmente”, ha spiegato al Foglio. “Certo, lo scarso risultato del Terzo Polo che a Milano ha preso meno del 5 per cento ha penalizzato tutti i candidati. Ma ogni preferenza che ho preso è frutto dei miei rapporti personali, slegati dalla coalizione, e con tutte queste persone posso continuare a fare politica, coerente alle mie convinzioni liberali”. Senna per ora si è congratulato con Fontana per la sua rielezione e ha sottolineato che si può fare politica anche fuori dai palazzi. Nella Lega di Salvini, di cui è stato molto amico, non si sentiva più a suo agio da molto tempo, non ha mai agitato il bastone contro i migranti per fare leva sulle paure dei ceti impoveriti. È sempre stato un leghista sui generis, apprezzato dagli avversari anche quando era organico alla Lega per il suo pragmatismo. Resta comunque la domanda: se sia possibile per i transfughi che hanno voltato le spalle alla Lega, o viceversa, costruire una nuova identità più fluida e meno territoriale. Perché anche Laura Molteni, ex deputata leghista e vicepresidente del Consiglio comunale, che è passata frettolosamente al partito di Meloni prima del deposito delle liste elettorali, è rimasta fuori con 870 voti, mentre diversi candidati provenienti da Forza Italia sono stati eletti.

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