Paolo Uccello, “San Giorgio e il drago” del Museo Jacquemart André: una delle opere in mostra a Ferrara. “Orlando furioso 500 anni” è allestita al Palazzo dei Diamanti fino all’8 gennaio

Le mille fantasie di Ariosto

Giuseppe Fantasia
Organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte, la mostra inizia con un libro (L’innamoramento di Orlando di Matteo Maria Boiardo) e finisce con un libro (il Don Chisciotte di Cervantes). Cinque secoli fa l’“Orlando furioso”. In mostra dipinti, libri e suggestioni che ispirarono il poeta.

Cosa aveva in mente e cosa vedeva Ludovico Ariosto quando chiudeva gli occhi e stava per descrivere una battaglia, un duello tra i cavalieri o il compimento di un incantesimo? Quali sono stati i libri che lo influenzarono maggiormente e quali opere d’arte furono le muse del suo immaginario? A queste domande hanno cercato di rispondere Guido Beltramini e Adolfo Tura che dopo tre anni di lavoro e di ricerche continue, affiancati da Maria Luisa Pacelli e Barbara Guidi, sono riusciti a realizzare “Orlando furioso 500 anni”, una mostra ospitata al Palazzo dei Diamanti di Ferrara che lavora proprio sull’immaginario visivo dell’autore mentre scrive il suo poema più conosciuto – l’Orlando Furioso appunto – facendolo dialogare con i dipinti le sculture, gli arazzi, i libri, i manoscritti miniati, gli strumenti musicali, le armi e gli oggetti più preziosi.

 

“Quando un artista doveva rappresentare un re guerriero medievale – ha spiegato Beltramini al Foglio – era costretto a precisarne l’aspetto mentre uno scrittore, al contrario, poteva esimersi da ogni descrizione”. Così fece l’Ariosto che cinquecento anni fa scrisse quello che è considerato l’ultimo tra i romanzi cavallereschi e il primo tra i moderni, l’opera-simbolo del Rinascimento italiano. La prima edizione, che uscì a Ferrara il 22 aprile del 1516 (ne seguirono altre due, nel 1521 e nel 1532), è “quella a cui si deve tornare per cogliere nel suo momento di freschezza vitale l’invenzione ariostesca”, come hanno scritto Tina Matarrese e Marco Praloran nella preziosa edizione pubblicata in questi giorni da Einaudi.

 



Piero di Cosimo, La liberazione di Andromeda, 1510

 

Primo poema classico italiano, composto di 40 canti, sognante e misterioso insieme, ambiva a cantare “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese” di un mondo lontano: conobbe da subito un ampio successo, raccogliendo l’ammirazione di molti contemporanei, tra cui Machiavelli – che in una lettera del 1517 indirizzata a Lodovico Alamanni, lamentava il fatto che Ariosto, in un poema “bello tutto et in di molti luoghi mirabile”, avesse volontariamente dimenticato di nominarlo – ma anche Dosso Dossi (in mostra troverete la sua Melissa, primo esempio della secolare fortuna figurativa del poema) e – ancora – Cervantes, Galileo e Voltaire, fino a Pirandello e Calvino. “La nostra scelta di curatori è stata quella di porre l’Orlando al centro, tenendo sullo sfondo la fortuna del poema nell’arte”, ha continuato Beltramini. “Lavorare sull’immaginario visivo da cui poi l’Ariosto trasse spunto per le sue fantastiche costruzioni non è stato semplice ma per farlo abbiamo tenuto conto sia di quelle opere che poté effettivamente conoscere, sia dei pezzi coerenti con la tradizione”.

 

Organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte, la mostra inizia con un libro (L’innamoramento di Orlando di Matteo Maria Boiardo) e finisce con un libro (il Don Chisciotte di Cervantes). C’è una controporta nera che riproduce l’immagine di una grande copertina realizzata, come tutto l’allestimento, dallo studio di Antonio Ravalli, che a sua volta si apre sulla prima stanza e sulle pagine dell’Innamoramento, romanzo cavalleresco pubblicato sempre a Ferrara trent’anni prima, di cui è esposta l’unica copia della seconda edizione (1482-1483). Le gesta dei paladini di Carlo Magno, protagoniste di una tradizione letteraria di lunga data, si trasferiscono così nelle pagine dell’Ariosto – il famoso “salto degli Orlandi” – “che con ironia e sensibilità moderne andrà a mettere in crisi le certezze di un mondo cavalleresco ormai distante”. Questo passaggio di testimone è rappresentato in mostra anche da due simboli comuni all’universo dell’Innamorato e del Furioso: il labirinto in cui i protagonisti delle “audaci imprese” si smarriscono e il bivio, la scelta tra il bene e il male, che si pone di continuo innanzi ai cavalieri. Se il primo è raffigurato sulla giubba di un misterioso cortigiano ritratto da Bartolomeo Veneto, il secondo appare invece sulla specchiera istoriata con l’emblema di Alfonso I d’Este, esempio dell’arte dell’intaglio ligneo del primo Cinquecento.

 



 

Sarà poi la sezione dedicata alla battaglia, reale e letteraria, a condurvi nel vivo della mostra ed è lì che potrete rendervi conto di quanto la fantasia ariostesca si nutrisse di altre fantasie e di come il suo non fosse altro che un mondo d’ipotesi costruito su ipotesi precedenti. Come ci hanno fatto notare i due curatori, anche l’olifante, in realtà – conosciuto come il “corno di Orlando”, perché, secondo la leggenda, lo fece risuonare tra i Pirenei, simbolo del suo sacrificio e dei trionfi dei crociati – “non è mai risuonato a Roncisvalle”. In ogni caso, lo ritroverete al centro della sala del palazzo per evocare uno degli episodi più celebri dell’epopea della Chanson de Roland, la celebre battaglia del 778 in cui Orlando uccise con la spada Durlindana il re saraceno Marsilio, ricordata nell’omonimo e prezioso arazzo con le sue scene di scontri armati sovraffollate e cruente, preso in prestito per l’occasione dal Victoria and Albert Museum di Londra. Dall’Inghilterra, più precisamente da Windsor, dalla collezione privata della Regina Elisabetta II, proviene anche Una battaglia fantastica con cavalli ed elefanti di Leonardo da Vinci, capolavoro della moderna raffigurazione bellica in cui uno sciame di corpi combatte con furia mescolandosi in una mischia dove cavalieri ed animali si distinguono a fatica. Ancora guerra – nella Battaglia di dieci nudi di Antonio Pollaiolo, uno dei capolavori dell’incisione italiana del Quattrocento, nella Scena di battaglia di Bertoldo di Giovanni e in quella di Ercole de’ Roberti – ma c’è anche la cultura della giostra e del torneo, documentata dal più antico elmo da giostra ad aver conservato il proprio cimiero e dalla sella da parata di Ercole I.

 



 

Nella sezione successiva, largo spazio è stato dato alla corte, “un luogo teatrale che vive di una continua rappresentazione di se stessa”: è l’ambiente in cui Ariosto si era formato, la prima e privilegiata cerchia dei lettori e ascoltatori dell’opera, specchio del poema e viceversa. La celebrazione di quella degli Estensi, rappresentata dai raffinatissimi ed esigenti Isabella e Alfonso, è omaggiata in mostra dal Leonello d’Este di Pisanello – uno dei più celebri ritratti del Quattrocento italiano – e da Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù di Andrea Mantegna, una grande tela proveniente dal Louvre, ricca di allusioni e riferimenti mitologici che rappresenta una delle fonti figurative che hanno nutrito l’immaginario ariostesco. Del resto, tutto il Furioso è strutturato intorno alle logiche della vita cortigiana, luogo di ambizioni e di giochi di potere di cui interpreta le dinamiche, un po’ come fece Machiavelli nel suo Principe (più votato peraltro all’anatomia dei meccanismi del dominio politico).

 

Ariosto immagina dunque nobili, cortigiani, donne e cavalieri e li “trasporta” poi nella sua opera tenendo conto anche della pittura e della scultura, oltre che della letteratura, spesso illustrata da preziose miniature. Per esemplificare questo immaginario, sono stati posizionati dipinti e oggetti diversi, dal San Giorgio di Cosmè Tura al Marte di Antonio Lombardo, dallo Scipione l’Africano in terracotta dei Della Robbia fino al Ritratto di guerriero con scudiero, detto Gattamelata, del Giorgione – usato come simbolo di questa mostra, visitabile fino all’8 gennaio prossimo – “l’espressione di un nuovo genere di ritrattistica di uomini d’arme fiorito nell’ambito della cultura di corte dell’Italia del nord”, come si legge nel catalogo pubblicato da Ferrara Arte, “il cavaliere moderno ritratto nella sua luccicante armatura e tratteggiato con grazia, languore e stilizzata bellezza”. Sarà lui, ma non solo lui, a essere al centro di quelle avventure ambientate in un passato leggendario e avvolte in un’atmosfera favolistica molto simile a quella che ritroviamo nel San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, prestato dal Musée Jacquemart-André, uno dei più suggestivi di Parigi, o nella Liberazione di Andromeda di Piero Di Cosimo. Il cavaliere che si innamora, che combatte, che impazzisce, ma – soprattutto – che desidera.

 



 

E’ il desiderio – oltre che l’amore (curiosità: Ariosto fece innamorare Giorgio Ferrara e Adriana Asti nell’indimenticabile trasposizione teatrale diretta da Ronconi nel 1969) – il perno dell’Orlando furioso, un poema in cui ogni personaggio insegue quel “qualcosa” che non riesce a possedere, sia esso un’arma, un cavallo, o una persona, come ci ricorda in tal senso la Venere pudica, uno dei quadri più sensuali di Botticelli. Ogni personaggio è portatore di un desiderio che lo lega al proprio destino, lo imprigiona e gli toglie il senno. “Chi vive senza follia non è così savio come crede”, disse François de La Rochefoucauld e quella dell’Ariosto “è una follia profondamente umanistica, che affonda le sue radici nella classicità, ed è condizione comune a tutto il genere umano”. Tutti siamo pazzi, ognuno impazzisce per una cosa, amore, sesso o altro e la pazzia è ovunque, tranne che sulla luna, astro identico alla terra, una sfera d’acciaio – scrive l’Ariosto nel suo poema riprendendo la stessa visione che ne aveva Leonardo da Vinci – riflettente e lucida, dove si recherà Astolfo, accompagnato da san Giovanni (splendido il dipinto San Giovanni a Patmos di Cosmè Tura), per recuperare il senno perduto da Orlando.

 

Per molti aspetti, il Furioso – “libro di cavalleria”, “che ’non incomincia’ dentro di sé perché è ’incominciato’ già da sempre altrove” – è una storia straordinariamente moderna con tanti personaggi che appaiono, svaniscono e poi riappaiono magari dieci canti dopo, un po’ come una grande e lunga telenovela, provocando così stupore e meraviglia. L’intreccio è affascinante e lo sguardo del suo autore è distaccato e ironico insieme, tanto da far sì che il poema non abbia una lettura univoca. E’ lui a guidarci, suggerendo, ammonendo, soccorrendo la memoria e permettendo di riprendere il filo laddove era stato interrotto. Del resto, solo chi scrive tiene le fila e chi legge viene invece tratto in inganno, come dagli artifici di un mago. Questa è la regola.

 


 

Una lingua imperfetta, molto creativa

Il Furioso che tutti leggono normalmente è scritto nel toscano letterario esemplato sui grandi trecentisti, quell’italiano che ha costituito la lingua letteraria dominante fino ai primi del Novecento. “Il primo Furioso, invece – hanno fatto notare Tina Matarrese e Marco Praloran, “assemblava liberamente il toscano con molti latinismi, con il lessico del volgare padano, con svariati termini dell’espressività popolare”. Sono loro i curatori del prezioso volume pubblicato da Einaudi che offre il testo originario del 1516 con un ampio commento sugli elementi caratteristici di questa lingua, imperfetta ma molto creativa, sottolineando tutti i passaggi più rilevanti che avverranno nell’edizione definitiva. Concepire la redazione del 1516 come un’opera a sé stante – precisano i due curatori di questo grande lavoro dedicato alla memoria di Cesare Segre che lo aveva fortemente voluto – “non significa ignorare le fasi successive”, ma si è anzi costretti a fare continui riferimenti alle soluzioni del 1532, là dove il confronto può servire a illuminare la ragione delle scelte e capire l’evoluzione della lingua, dello stile, della stessa poetica ariostesca”.

 

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso. Secondo l’editio princeps del 1516, a cura di Tina Matarrese e Marco Praloran (Einaudi, pp. XLVIII - 1400, 120 euro).

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