Italo Calvino

Rileggere Calvino, moralista del sorriso che ha fatto letteratura senza volere essere maestro di vita

Alfonso Berardinelli

Lo scrittore è stato un maestro nell’arte di schivare o miniaturizzare i conflitti più angosciosi e drammatici del Novecento

Sul numero 5/2016 di Vita e Pensiero si può leggere un appassionato dialogo fra lo storico della letteratura Carlo Ossola e il poeta Franco Marcoaldi. Occasione del dialogo è l’uscita dell’ultimo libro di Ossola, “Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove”. Ciò che anzitutto sorprende è l’accostamento tra Calvino, sempre così attento al visibile, e l’invisibile il cui “dove” non può che essere l’interiorità, dimensione alla quale la narrativa calviniana si è sempre interessata poco. Ma se l’interiorità è il luogo dell’immaginazione, allora va precisato che l’immaginazione di Calvino è soprattutto visiva, come risulta, per intenzionale paradosso, da uno dei suoi libri visivamente più suggestivi, “Le città invisibili”. Calvino pensa e immagina vedendo. L’idea centrale del dialogo è comunque un’altra: è l’idea di Calvino come “grande moralista”. Grande non so, ma credo anch’io che una delle ragioni del successo di questo singolarissimo scrittore sia il suo criptomoralismo, un moralismo che non emette giudizi, ma propone con sorridente discrezione un modo di essere contro un altro.

Calvino era un pessimista reticente e mascherato, un misantropo che preferiva guardare gli umani da lontano. E’ il suo “pathos della distanza”: o forse più precisamente l’emozionato conforto di non essere nella mischia, di osservare dal basso o dall’alto le faticose azioni e le dolorose vicende umane. Dal “Sentiero dei nidi di ragno” (protagonista un ragazzo) a “Palomar” (protagonista un anziano) Calvino scrive stando sempre un po’ altrove. In effetti l’attività letteraria è sempre e comunque un altrove, un “fuori” e richiede un certo distacco. Bisogna dire però che c’è letteratura e letteratura e lo “stile Calvino” propone un moralismo che lascia qualche dubbio sul suo essere un “maestro di vita”. Calvino è stato un maestro nell’arte di schivare o miniaturizzare i conflitti più angosciosi e drammatici del Novecento. Si è tenuto “alla larga” dalle eredità più impegnative di quella letteratura moderna che dalla fine del Settecento a metà Novecento ha denunciato non solo la prepotenza delle classi al potere, ma soprattutto l’ottusità e l’ipocrisia di tutta la vita sociale dominata dalla borghesia commerciale, industriale, burocratica. Tutta la letteratura moderna era stata conflittuale e destabilizzante, anche a costo di spaventare i lettori. Una letteratura che era moderna nel processare la modernità: l’idea di progresso, il razionalismo scientifico, l’utilitarismo, il potere della tecnica, la disumanizzazione del lavoro e dei rapporti quotidiani, il formalismo normativo delle istituzioni. I classici della modernità erano stati dei critici sociali radicali, da Rousseau a Manzoni, da Leopardi a Kafka, da Baudelaire a Eliot, da Flaubert a Tolstoj, a Pirandello, Musil, Orwell, Camus, Beckett.

 

 

Calvino volta pagina. Alleggerisce. E’ un tipico postmodernista. Viene dalle fiabe premoderne, adotta la loro intemporale saggezza, la loro meravigliosa infantile stilizzazione. Anche le fiabe sono abitate dall’orrore. Ma si tratta di orchi, fantasmi e streghe. Con il suo barone rampante, il suo visconte dimezzato, il suo cavaliere inesistente, Calvino prende la distanza da angosce e conflitti del presente. Li mette argutamente in maschera, li sdrammatizza. Li osserva da un virtuale aldilà. Il suo è un moralismo del sorriso e dell’evasione. Due cose senza le quali la vita sarebbe impossibile. Eppure, se confrontiamo la letteratura secondo Calvino con la letteratura secondo Montale e Gadda, i due autori più celebrati che lo hanno preceduto, si nota subito una perdita. Di fronte a loro, Calvino sembra recitare la parte del bambino e dell’adolescente. Alla fine si sentì precocemente vecchio. Ma la rappresentazione dell’età adulta l’aveva evitata.

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