Il ritratto di Elisabetta II su una banconota da 50 sterline. Dopo il referendum sull’uscita del Regno Unito dalla Ue, la valuta britannica è arrivata a scendere sotto il livello del 1985

L'altra regina

Stefano Cingolani
L’egemonia fino al 1914, il crollo del ’92, la fragilità del dopo Brexit: splendori e cadute della sterlina, la più antica moneta ancora in uso. I cambisti delle grandi banche e dei fondi di investimento pensano che potrebbe fermarsi alla parità con l’euro. 

La sterlina, chi era costei? Per quasi un quarto di secolo, dal fatidico 16 settembre 1992, il “mercoledì nero” in cui venne fracassata trascinando anche la lira italiana, la valuta britannica s’è fatta piccina, rattrappita quasi in un angolo, surclassata dal corpulento euro sia negli scambi mondiali sia nelle riserve delle banche centrali. Superati anche dallo yen giapponese, i biglietti di sua maestà sono regrediti al quarto posto con un misero 4 per cento nel paniere del Fondo monetario internazionale e un discreto ma modesto 10 per cento negli scambi giornalieri di valute (serve ancora per il rame, per esempio o in alcuni paesi del vecchio impero). Dove finiranno dopo la Brexit non si capisce. Non è “in caduta libera” come molti hanno scritto subito dopo il voto, ma la sterlina in pochi giorni è scesa sotto il livello del 1985, per poi risalire. I cambisti delle grandi banche e dei fondi di investimento pensano che potrebbe fermarsi alla parità con l’euro, un altro colpo a quell’orgoglio britannico che, un po’ come la grandeur per la Francia, tanti guai ha provocato alla propria nazione.

 

Londra vuole sempre fare eccezione. Fu così anche subito dopo la Seconda guerra mondiale quando tentò di negoziare una sorta di canale preferenziale con gli americani che dal 1940-41 avevano fornito il Regno Unito di tutto, dalle scatolette alimentari alla benzina, dalle munizioni ai pezzi di ricambio, oltre ai dollari sonanti. Andò male. Per tornare sul libero mercato la sterlina dovette aspettare il 1958 quando il generale Charles de Gaulle introdusse il nuovo franco convertibile rimescolando gli equilibri valutari europei. Ripescata grazie ai francesi, che scorno. Ma non corriamo troppo avanti e non tiriamo in fretta le conclusioni. Questa storia merita un librone ben raccontato e illustrato, con mille aneddoti e personaggi veri o fantastici, senza dimenticare il cappellaio matto di Alice che porta sulla tuba il prezzo: 10 scellini e 6 pence cioè mezza ghinea che allora era un valore di riferimento popolare. Perché le monete, come scrisse Marc Bloch, sono “a un tempo barometro di movimenti profondi e non meno formidabili conversioni delle masse”.

 

Le radici della sterlina affondano nella libbra (in inglese pound) unità di misura dell’impero romano e nell’argento che era stato il metallo di riferimento fino alla riforma aurea di Costantino. Ma chi introdusse per primo la moneta equivalente a 240 penny fu il re anglosassone Offa di Mercia nell’VIII secolo dopo Cristo ispirandosi al denarius di Carlo Magno. Quindi, dopo la scomparsa della lira italiana, sussunta nell’euro, è la più antica moneta ancora in uso. Il simbolo £ simile a quello della lira risale al medioevo e fino all’avvento dei Tudor il pound non è cambiato molto. Poi arrivano nuovi conii e il mercante Thomas Gresham se ne esce con la sua teoria che la moneta cattiva caccia quella buona. La scoperta delle Americhe, del resto, ha fatto esplodere l’inflazione in Europa, l’argento del Messico avvantaggia gli spagnoli e colpisce la borghesia mercantile italiana. Bisogna arrivare al 1663 con la ghinea d’oro per ritrovare un nuovo ordine finché nel 1694 viene fondata la Banca d’Inghilterra che comincia a stampare banconote di carta. Proprio come in Cina. E la sterlina comincia nuove avventure. Grazie all’impero diventa una moneta mercantile su scala mondiale. Grazie alla rivoluzione industriale si fa specchio della nuova potenza britannica, con grande invidia del franco francese.

 


La Banca d'Inghilterra, a Londra, in una litografia del 1851


 

Le guerre napoleoniche introducono una frattura e segnano una lunga crisi, anche se c’è chi come i cinque fratelli Rothschild, piazzandosi a Francoforte, a Londra e a Parigi, gioca su tutti i fronti. Sconfitto il grande nemico, la Banca d’Inghilterra introduce il gold standard, mettendo l’oro come base di riferimento del valore monetario. Con la ripresa della Francia e l’avvento del Secondo Impero, Parigi si mette in competizione aperta. I debiti di tutti gli altri paesi europei, tra i quali quelli del Regno di Sardegna e poi del neonato Regno d’Italia, vengono contesi dalle banche inglesi e da quelle francesi. “L’Inghilterra aveva avuto il monopolio dell’esportazione di capitali fino al 1850 poi era entrata in campo la Francia in gran parte per la gloire, cioè esportando capitali al servizio delle politiche nazionali”, ricorda l’economista e storico americano Charles Kindleberger. La situazione cambia di nuovo a partire dal 1870 dopo la sconfitta francese contro la Prussia e la caduta di Parigi.

 

Scrive Walter Bagehot, il fondatore dell’Economist e teorico della banca centrale come prestatore di ultima istanza: “A questo punto noi deteniamo le riserve dell’Europa intera. Tutto il carico dei pagamenti internazionali in contanti è riversato sulla Banca d’Inghilterra”. E’ il 1873 e Britannia comanda. Anche se nel frattempo è emerso il marco, valuta specchio della nuova forza industriale tedesca, la sterlina non ha rivali fino al 1914. La Grande guerra cambia tutto. Gli anni Venti sono dominati dall’iperinflazione così come il decennio successivo lo sarà dalla disoccupazione. Nel frattempo entrano in scena i grandi banchieri americani a cominciare dal più importante di tutti, John Pierpont Morgan. E’ a lui che si rivolge persino la Francia nel 1924 quando la speculazione la mette a terra. Le tempeste finanziarie si susseguono finché nell’ottobre del 1929 non crolla Wall Street e due anni dopo anche l’Europa entra in deflazione.

 

La crisi si manifesta in tutto il mondo nel 1931 e mette in dubbio il pilastro del sistema aureo. John Maynard Keynes attacca a testa bassa contro l’errore capitale di aver ripristinato quello che chiama “un barbarico relitto”. A suo avviso i cambi fissi legati all’oro costringevano i paesi in deficit ad alzare i tassi d’interesse per difendere la moneta, aggravando così la recessione. Per gli americani al contrario un sistema monetario senza ancora creava instabilità, la quale impediva gli investimenti e la crescita. Certo è che i prezzi scivolano lungo un piano inclinato e la deflazione si trasforma in depressione. La disoccupazione di massa e non l’inflazione che è storia del decennio precedente, porta al potere Hitler, ha scritto Antonio Fazio, l’ex governatore della Banca d’Italia in un suo studio recente sulla Grande crisi. Nella Londra scossa dagli scioperi, vanno al governo i laburisti con James Ramsay McDonald fino al 1935, senza combinare granché. Non fanno meglio i conservatori i quali, nell’illusione di cavarsela con una scappatoia, commettono un errore capitale: il patto di Monaco con Hitler il 30 settembre 1938. Il primo ministro Neville Chamberlain torna in patria sventolando il trattato, accolto da folle plaudenti. Elite e popolo sono in sintonia.

 

In ottobre la Germania s’annette i Sudeti, nel marzo 1939 entra a Praga. Il primo settembre in Polonia. Gli inglesi la chiamano ancora twilight war, la guerra in penombra. A maggio del 1940 vengono travolti a Dunkerque. Senza esercito e senza sterline, si rivolgono di nuovo agli Stati Uniti. Nel marzo 1941 sono stipulate intese chiamate di lend-lease (prestiti e affitti): Washington concede beni e servizi, equipaggiamento militare, cibo, accettando che i conti siano regolati alla fine della guerra senza gravare troppo. Il Congresso americano chiede condizioni più stringenti mentre l’opinione pubblica è restia a intervenire militarmente. Londra, d’altra parte, pretende (come sempre) uno status particolare perché intende esportare direttamente nei suoi dominion, almeno là dove i mercati erano ancora aperti, e cominciano le accuse agli Stati Uniti considerati meno generosi del Canada. Il punto di vista americano è del tutto opposto: “La nostra generosità superò ogni aspettativa”, sottolinea Kindleberger.

 

A Bretton Woods, durante la conferenza organizzata tra gli alleati nel 1944 per ricostruire il sistema monetario in caso di vittoria, il braccio di ferro ricomincia. Gli americani guidati da Harry Dexter White vogliono che il dollaro diventi la valuta di riferimento, l’unica convertibile in oro. A difendere con abilità diplomatica gli interessi inglesi è Keynes, il quale propone una moneta artificiale, il Bancor, sostanzialmente un paniere tra le principali valute. L’idea non passa. Sarà recuperata dal Fondo monetario internazionale il quale si basa sui Diritti speciali di prelievo il cui valore viene definito dall’equilibrio ponderato delle valute che ne fanno parte. John H. Williams, economista di Harvard e vicepresidente della Federal Reserve di New York, spiega così la filosofia a stelle e strisce: le valute sono strutturate gerarchicamente non su basi di eguaglianza; ai vertici c’è ormai il dollaro, la sterlina è a metà strada, ma scivola già verso quelle secondarie. Keynes muore nel 1946, Winston Churchill è già stato disarcionato (nel luglio 1945) e nessuno è in grado di tenere testa a Washington. Lord Halifax, ambasciatore a Washington, negozia un prestito per rendere convertibile la valuta britannica. Un disastro.

 

Tornata sul mercato il 16 luglio 1947, resiste solo sette settimane. Il governo non riesce ad affrontare il problema dell’enorme debito perché non vuole perdere la faccia chiedendo che vengano rimessi i debiti del vecchio impero in dissoluzione. Il cambio con la moneta americana, che era stato superiore a 4, scende verso i 2 dollari e, pur tra alti e bassi, non risalirà più. La convertibilità arriva solo nel 1958 quando il piano Marshall ha dispiegato i suoi effetti e la ricostruzione si può dire completata.
Gli anni Sessanta, quelli nei quali viene introdotto il welfare state e nasce la Swinging London, pesano sulle finanze nazionali e mostrano un paese ancora fumoso di carbone con una base industriale tradizionale. Nel 1967 il laburista Harold Wilson deve svalutare, ma non ottiene gli effetti sperati dalla sinistra keynesiana perché la caduta di competitività ha ragioni soprattutto strutturali. Quando Richard Nixon nel ferragosto 1971 annuncia la fine della convertibilità del dollaro in oro, tutte le monete salgono sull’ottovolante. Nello stesso anno Londra adotta il sistema decimale per la propria valuta e si esaurisce anche l’area della sterlina creata nel 1939. Il gabinetto laburista di James Callaghan nel 1976 chiede aiuto al Fondo monetario, lo stesso farà in Italia il governo della “non sfiducia” guidato da Giulio Andreotti. Due anni dopo arriva “l’inverno dello scontento” che spiana la strada a Margaret Thatcher.

 

L’èra dell’inflazione innescata dai conflitti sociali e dall’impennata del petrolio finisce nel 1979, quando gli Stati Uniti cambiano totalmente marcia con un improvviso aumento dei tassi d’interesse. E’ la svolta monetarista e non sono certo rose e fiori: con la moneta cara e rara, le imprese licenziano. In Inghilterra la recessione provoca tre milioni di disoccupati e la sterlina scende verso la parità con il dollaro. La botta è durissima, tuttavia viene compensata da una inusuale abbondanza di capitali grazie ai petrodollari degli sceicchi che prendono due strade: Wall Street e la City. La rivoluzione liberista apre le porte alla circolazione dei capitali e Londra è all’avanguardia con il big bang del 1986. L’Inghilterra cambia volto: non vive più soprattutto di manifattura, ma di servizi e soprattutto di finanza (oggi formano tre quarti del prodotto lordo). Non per questo la prosperità è garantita una volta per tutte. Quando cade il Muro di Berlino e implode l’Unione sovietica, un’onda d’urto attraversa anche l’Europa occidentale, cominciando dalla periferia, anzi dai confini con l’Urss.

 

La Finlandia viveva sul filo del rasoio, ma era la porta d’ingresso verso l’occidente; improvvisamente si trova senza il suo grande partner, salta la sua bilancia dei pagamenti, crolla il markka trascinando con sé le corone dei paesi scandinavi. La turbolenza nordica innesca una speculazione che attacca le moneta considerate deboli: la sterlina e la lira italiana. Ci mette lo zampino George Soros che, come sappiamo, scommettendo contro la valuta britannica si è fatto un gruzzolo enorme. Ma se non vogliamo raccontare la storia per aneddoti, dobbiamo dire che le condizioni di fondo rendevano il cambio insostenibile, e lo stesso vale per la lira italiana.

 

La sterlina si era via via avvicinata alle valute europee. Dopo la breve e infelice disavventura nel serpente monetario, nel 1985 sceglie il marco come punto di riferimento. Nel 1990, con una parità attorno a 2,8 marchi e 2.207 lire, la pound sterling entra nello Sme, un vero e proprio sistema monetario che legava i cambi con un margine di oscillazione del 2,25 per cento in alto e in basso (solo l’Italia, nel 1978, aveva ottenuto di potersi muovere di sei punti). Guido Carli, allora ministro del Tesoro, pensa che Londra non abbia cambiato il suo atteggiamento e non voglia affatto una piena integrazione. Ha ragione, anche questo legame dura poco perché il crollo del 1992 mette fine al vecchio accordo e innesca un percorso che porterà all’euro meno di dieci anni dopo. La lira si estingue, la sterlina resta fuori, ma Londra cerca di approfittare in ogni caso della moneta unica europea, collocandosi a mezza via tra euro e dollaro; sempre sull’uscio, un po’ di qua e molto al di là. La crisi del 2008 fa saltare anche questo equilibrio.

 

Il Regno Unito salva le banche con i denari dei contribuenti, aumenta deficit e debito, segue la ricetta americana, si riprende prima e meglio del resto d’Europa, mentre l’area euro attraversa una bufera dopo l’altra: la Grecia, la Spagna, l’Italia. Il fossato tra paesi del nord e del sud s’allarga. La moneta unica è a rischio, nonostante l’impegno di Mario Draghi per salvarla a tutti i costi. Quanto ha inciso tutto ciò sulla Brexit? Difficile dirlo, certo ha preparato ben bene il terreno. E adesso, splendid isolation? Non proprio. Il peso della sterlina si ridurrà ancora, scrive il Wall Street Journal.

 

Andare avanti da soli non era possibile già nel secondo Dopoguerra, tanto meno oggi nell’èra del libero scambio che, nonostante acciacchi e sussulti, non sembra destinata a finire. La valuta britannica non sarà mollata, semmai verrà ingabbiata dalle monete più forti, magari dando l’illusione agli inglesi che tutto si debba al loro incrollabile orgoglio. Scrive Kindleberger a proposito del 1946, quando gli americani stamparono dollari senza alcuna contropartita per consentire agli europei di comprare cibo e materie prime: “Come sempre nella storia della finanza, in situazioni di emergenza le regole andavano aggirate”. Ancora una volta sarà così.

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