Così al tempo dei romani si scacciavano i fantasmi

Alessandro Giuli
Gli esegeti di Ovidio sostengono che, in occasione dei Lemuria, il pater familias dovesse placare i fantasmi dei morti acerbi riaffioranti dagl’inferi; laddove invece costui, a piedi nudi sulla terra, le ceneri degli Avi, imponeva a sé stesso che la sua mente purificata non macchiasse quel silenzio di fosche ombre.

Il tempo non aveva ancora iniziato a scorrere nella sua forma ellittica. “L’anno era più breve, e ancora non si conoscevano i pii riti / di espiazione, né tu, Giano bifronte, eri la guida dei mesi; / già tuttavia si recavano doni al cenere degli estinti, / e il nipote recava il suo omaggio alla tomba dell’avo sepolto. / Ciò avveniva nel mese di maggio – il cui nome deriva dai Maggiori –, / che serba tuttavia ancora oggi parte dell’antica consuetudine. / Quando è mezzanotte, e il silenzio invita al sonno, / e voi avete taciuto, cani e uccelli variopinti, / chi è memore dell’antico rito e ha il timore degli dèi / si alza – entrambi i piedi sono privi di calzari –, e fa segnali serrando le dita con il pollice in mezzo, / affinché un’impalpabile ombra non si faccia incontro a lui silenzioso. / E dopo aver deterso in acqua di fonte le mani, purificandole, / si volta, e prima raccoglie nere fave, / e le getta dietro le spalle, e mentre le getta dice: / ‘Queste io lancio, e con esse redimo me e i miei congiunti’. / Ripete questa formula nove volte senza guardarsi alle spalle: / si crede che l’ombra le raccolga e, non vista, lo segua. / Di nuovo egli tocca l’acqua e fa risuonare i bronzi / di Tèmesa, e prega che l’ombra esca dalla sua casa. / Pronunziata nove volte la formula: ‘Uscite ombre dei miei padri!’, / infine si guarda alle spalle e giudica il rito compiuto con purezza”. Dice proprio così, Ovidio, nel libro V dei suoi Fasti (la traduzione è di Luca Canali), a proposito del rito che ricorre nel giorno dei Lemuria, il 9 maggio, il mese dei Maiores, gli Avi nostri.

 

Ovidio scrive in età augustea, epoca in cui alcune grossolane superstizioni spiritiste d’origine orientale cominciavano a farsi largo nell’Urbe. Il che ha sviato numerosi esegeti del poeta, inducendoli a interpretare alla lettera quel che la lettera profana non sa spiegare: sostengono che, in occasione dei Lemuria, il pater familias dovesse placare i fantasmi dei morti acerbi riaffioranti dagl’inferi; laddove invece costui, a piedi nudi sulla terra, le ceneri degli Avi, imponeva a sé stesso che la sua mente purificata non macchiasse quel silenzio di fosche ombre, così ch’egli potesse evocare e invocare in sé l’essenza pura dell’Antenato. Perché non si voltava indietro? Perché il pater familias procede verso la luce e conduce con sé i suoi famigliari: dietro l’uomo c’è l’ombra, il suo oscuro io egoista, il sedimento delle impurità che la personale vicenda storica e i trascorsi meno chiari della sua familia hanno accumulato nel tempo. E sono proprio queste ombre che fanno dell’uomo dimentico di sé un vano sognatore, un lemure appunto, figura disanimata e inconsapevole, un automa fatto di ossa e tendini e legamenti che obbediscono meccanicamente alle leggi della natura inferiore. “Manes exite paterni!”, scandisce per nove volte il pater, allontanando così le ombre ottenebranti che ostacolano il retto essere e il retto agire del Vir romano intenzionato a riconquistare, e tramandare, l’integra purità dell’Avo primigenio.

 

La fava utilizzata nel rito famigliare è detta Vicia faba minor: il nero e tondeggiante favino che arricchisce il terreno di azoto e, irrobustendolo, propizia una più ricca germinazione e produzione di frumenti. E’ la medesima fava offerta alla dea Carna al principio di giugno, nelle Kalendae fabariae, insieme con lardo e interiora di maiale. Ninfa virginale divinizzata dal Padre Giano, che la rese luminosa e salvifica, Carna protegge il cuore e il fegato e le altre viscere umane, in modo particolare quelle dei fanciulli insidiati dalle presenze vampiresche (striges). E dunque, per il tramite purificante e rigenerativo del favino, il pater familias induce la forza numinosa di Carna a vigilare sulla salute e vitalità della sua discendenza, della gioventù quirite che presto sarà il cardine dell’Urbe, dopo aver attraversato la Porta che conduce alla virilità e di cui Carna – dea Cardinis haec est – è custode e ninfa, linfa vitale.

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