Quale piccolo Sancho Panza non avrebbe seguito, altero e mansueto, quel grande Don Chisciotte? (Alexandre-Gabriel Decamps, “Don Quichotte et Sancho”, 1835. Pau, Musée des Beaux-Arts)

Fave e memoria

Giuseppe Sottile
Una sera, avevo sei o sette anni, vide che tremavo dalla paura. Mi raccontò che lui aveva incontrato banditi e briganti. Storia di un nonno, di un nipote e di una scorribanda sacrilega nelle terre proibite del barone di Casalgiordano. Un’epopea misera e fantastica nel gran teatro di Sicilia.

Quando mi hanno detto che sarei diventato nonno, non trovai altro da fare che pensare a mio nonno. E mi guardai pure allo specchio, non mi vergogno a dirlo, per scoprire che di colpo non somigliavo più né a mio padre né a mia madre, né a mio fratello né a mia sorella, né a mio figlio né a mia figlia. Ma a mio nonno. Sì, proprio a lui, a quel poverocristo basso e tarchiatello che il padreterno, in un giorno di negligenza, aveva sdirupato su un pizzo di montagna, al centro della Sicilia, lontano dal mare e lontano dall’Etna, senza sole e senza fichidindia. Un pezzo di Sicilia, incagliato tra gli altipiani dei Nebrodi e delle Madonie, ma che della Sicilia bedda, quella amata e spupazzata dal cinematografo, non aveva proprio nulla. Nemmeno l’orgoglio di avere dato i natali, si dice così, a Empedocle e ad Archimede: che erano certamente persone illustri e in quanto tali potevano essere comodamente liquidati, come i baroni, con una levata di coppola e un “voscenza ‘bbenedica”. Che ne sapevamo noi della fisica e della matematica, della storia e dei miti, delle verità e degli inganni che avevano attraversato la Sicilia?

 

Certo, la sera, se tu bambino non riuscivi proprio a dormire, trovavi pur sempre un nonno, un padre, uno zio o comunque un sant’uomo disposto a prenderti sulle ginocchia e a rassicurarti. Ma le favole, le nostre favole, non avevano né la semplicità della parola né la lucentezza del racconto. Erano per lo più trame impastate di pane e tumazzu, di sottintesi compiaciuti, di ammiccamenti ruffiani, di complicità innocenti e beffarde. Telegrammi immaginari, li avrebbe chiamati Francis Scott Fitzgerald. Ma che ne sapeva, mio nonno, del grande Gatsby e di tutte le altre diavolerie americane? Una sera – avevo forse sei o sette anni – vide che tremavo dalla paura. Gli confessai che la maestra ci aveva parlato dei fantasmi e che, parlando parlando, quel pensiero si era ingrottato, nefasto e serpigno, nella mia mente. Per un pronto accomodo, cambiò discorso. Mi raccontò che lui invece, aveva incontrato banditi e briganti, altro che fantasmi; e che un giorno, lungo la trazzera di Malopasso, un nome e un incubo, era stato persino fermato da due picciotti col viso coperto – “infacciolati”, diceva lui – venuti dalla malsana Palermo o giù di lì, ma certamente mandati da quel vicarioto che rispondeva al nome di Salvatore Giuliano: sì, proprio lui, il terribile Turiddu Giuliano, il re di Montelepre, quello che si era fissato di somigliare a Tyrone Power e che aveva avuto anche il fegato di dettare, prima di morire ammazzato, le poche ma sentite parole da scrivere sulla sua tomba. Due versi con rima baciata: poveri sogni miei alati e muti, come uccelli di bosco siete caduti.

 

“Vedi, figlio mio, quante avversità e quante malepersone? Eppure sono rimasto sano e pieno di vita”, concludeva. Perché lui, mio nonno, sapeva come allontanare briganti e fantasmi che si avvicinavano alla sua terra di Zimmarra, terra di pietre e grano duro: bastava andare di notte nel campo di fave, laggiù lungo il fiume, nel feudo della baronessa di Casalgiordano; bastava camminare quatti quatti lungo i rovi che marcavano il confine, e il sortilegio avrebbe allontanato ogni anima nera. Una premessa ammaliante. Che, agli occhi di un bambino, inevitabilmente fiammeggiava di eroismo, di epopea misera e gigante: quale piccolo Sancho Panza non avrebbe seguito, altero e mansueto, quel grande Don Chisciotte? Per quasi un’ora camminammo di notte a cavallo di un mulo baio, lui davanti e io in groppa, alla luce di nuvole chiare. Me ne stavo aggrappato, con le mani e con le unghia, al suo scapolare verdastro; gli occhi sgranati dall’attesa e dal mistero. Mi veniva da piangere, ma l’avventura non prevedeva né lacrime né singhiozzi. Solo silenzio: perché il rumore avrebbe svegliato i cani e i campieri della baronessa; e a quel punto, buonanotte ai suonatori. Era anche vietato parlare: “Se il mulo è muto, tu perché parli?”. E così, agguattati e silenti, ci inconigliammo nel campo delle fave. Delle fave verdi, quelle col baccello succoso e vellutato. Le cogliemmo a manate. “Mangia, figghiumiu, ché i fantasmi se ne vanno”. “Anche i briganti?”. “Anche i briganti”. E appanzicati come non mai, tornammo a riprendere il mulo.

 

Potrò mai raccontare una favola così – tenera e scellerata – a mio nipote, nato qui a Roma, e che, per una civetteria del destino, porta lo stesso nome mio e di mio nonno? Sessanta e passa anni fa, la notte in cui sazi e stregati tornammo dal campo di fave – era stata una notte di insomnia ribalda e ghibellina – ricordo che mi addormentai serenamente, con la dolcezza dell’infanzia, senza sussulti e senza paure. Mi rassicurava la memoria di un odore – l’odore dello scapolare verdastro – e di una epopea che, come nell’Ulysses, aveva incrostato di una “scorza salina” la vecchiaia di mio nonno. E me lo conservava giovane come un’anguilla, iridato di squame e di mare, forte e bello come tutti gli eroi. Quale epopea, quali fantasmi, quali odori potrò mai condividere io con mio nipote? L’altro ieri, era di maggio, ho comprato al mercato un sacco bello di fave, ce n’erano a quintalate sui banconi del Testaccio. Mi rosicchiava dentro un filino di nostalgia e, arzillo come non mai, l’ho portato a casa, pronto per chissà quale orgiastico rito della memoria. Ma non ho invitato, al banchetto, il mio nipotino, il mio amatissimo Giuseppuzzo. “Il dolce stormire degli ulivi era bello nel tempo andato”, annotava Eugenio Montale. Che qui viene citato con svolazzante civetteria per ricordare a noi stessi che, dopo le fave e le sacrileghe scorribande nelle terre proibite di Casalgiordano, c’è stato anche un inizio di scuola elementare.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.