Vincent Bolloré, secondo azionista di Assicurazioni Generali (ufficialmente possiede l’8 per cento del capitale) e Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca

Comincia la partita per la conquista della Generali

Stefano Cingolani
Il capitale, è sempre una questione di capitale, con la lettera maiuscola e con la minuscola; quello sistemico di Karl Marx e quello umano di Alfred Marshall, quello di Thomas Piketty e quello di Enrico Cuccia con tutti i suoi discendenti diretti e indiretti fino ad Alberto Nagel, Federico Ghizzoni e Mario Greco.

Il capitale, è sempre una questione di capitale, con la lettera maiuscola e con la minuscola; quello sistemico di Karl Marx e quello umano di Alfred Marshall, quello di Thomas Piketty e quello di Enrico Cuccia con tutti i suoi discendenti diretti e indiretti fino ad Alberto Nagel, Federico Ghizzoni e Mario Greco. Si parva licet. Che cosa c’entra il capitale con quel che sta accadendo lungo l’autostrada Milano-Trieste? C’entra e come: il teatro delle ambizioni e delle vendette sembra una pièce di Ionesco se non lo si riconduce ai fondamentali. Le Assicurazioni Generali sono senza guida perché gli azionisti non mettono mano al portafoglio. Unicredit è finita sotto il tiro della Borsa, dei clienti, della Banca centrale europea persino, in fondo per lo stesso motivo. E Mediobanca non riesce a uscire dal suo lungo cono d’ombra per la medesima ragione che l’ha fatta nascere nel 1946: tenere insieme un capitalismo senza capitale.

 

Ma procediamo passo dopo passo evitando sovrapposizioni; non è facile entrare in questa labirintica casa dei giochi dove s’intrecciano passioni private e destini collettivi, nazionali persino. Si è mosso anche Matteo Renzi per assicurarsi che le Generali, dopo l’uscita di Greco, non finiscano in mano straniera. Pericolo tutt’altro che scontato. I tempi stringono, tanto che è stato convocato per martedì prossimo, 9 febbraio, un consiglio di amminstrazione straordinario.

 

Dunque, cominciamo dall’inizio, come nelle grandi saghe della Mitteleuropa alla quale, in fondo, appartiene anche il Leone di Trieste. C’era una volta la Galassia del nord che ruotava attorno a un unico sole, la Mediobanca di Cuccia. Teneva insieme le grandi famiglie del capitalismo dal Piemonte al Veneto con una puntata a Firenze: dagli Agnelli ai Pirelli, dai Pesenti agli Orlando, fino ai parvenu del Dopoguerra, i Lucchini, i Ligresti. La sua forza era basata su tre gambe, le tre Bin (banche d’interesse nazionale) che dalla Grande crisi degli anni Trenta in poi facevano capo all’Iri: cioè la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma. Loro garantivano il capitale (appunto) a basso costo, piazzando le obbligazioni emesse dall’istituto di via Filodrammatici, dove venivano orchestrati gli equilibri del capitalismo privato in modo che non finisse tutto in mano allo stato. Anche per questo era essenziale tenere con presa ferrea e arcigna le Generali. Perché con il Leone braccato da cento cacciatori, non si scherza.

 

La compagnia era il portafoglio sicuro della grande e piccola borghesia settentrionale, con diramazioni in quella Europa post asburgica sulla quale aveva spaziato per un secolo. I vertici venivano nominati da Cuccia, che aveva la supervisione su tutto, e rinnovati anno dopo anno in modo che nessuno potesse diventare troppo potente, cioè troppo autonomo. Ci aveva provato una figura per certi versi controcorrente come Cesare Merzagora, ma nemmeno lui era riuscito a emanciparsi; del resto, Mediobanca aveva nascosto in una scatola finanziaria lussemburghese, Euralux, il pacchetto azionario che forniva la chiave per il controllo del capitale (sempre lì si torna). Merzagora lo scoprì e lo rese pubblico sulla Repubblica di Eugenio Scalfari che con il banchiere romano (di ascendenze siciliane) aveva un rapporto di odiamore. E fu come ammettere che nessuno a Trieste contava un tubo, tranne Cuccia.

 

Una digressione troppo lunga? Non proprio. Quel sistema è rimasto in piedi fino agli anni Novanta, quando le tre Bin sono state privatizzate, sottraendole al controllo di Mediobanca, a opera di Romano Prodi, che aveva già tentato più volte di scardinare il fortilizio della finanza laico-massonica. Con la morte di Cuccia all’alba del nuovo millennio, è cominciata la frana, fragorosa, piena di detriti e di rovine. E’ caduto il fido Vincenzo Maranghi, l’ex giornalista erede naturale del padre-padrone (anche Cuccia aveva cominciato come giornalista al Messaggero e poi aveva sempre diffidato della stampa). E’ passato lungo il fiume anche Alessandro Profumo, che lo aveva detronizzato in stretta alleanza con Cesare Geronzi, il quale dal Banco di Roma è arrivato al vertice prima di Mediobanca e poi delle Generali.

 

Di quella galassia è rimasto solo un piccolo sistema di tre pianeti, incastrati l’uno nell’altro. Siccome la nostra storia gira attorno al capitale, la sequenza deve cominciare da chi possiede chi. Dunque dalla banca Unicredit azionista numero uno di Mediobanca (ne possiede quasi il 9 per cento) la quale con il 13 per cento tiene in mano le Generali. Simul stabunt simul cadent? Una cosa è certa: il primo che si sfila trascina con sé tutto il resto.

 

Ma a chi fa capo la Unicredit? Socio principale è il fondo Aabar con sede a Lussemburgo che dipende dall’emiro Khalifa bin Zayed Al Nahyan, ricchissimo sceicco con un patrimonio di 21 miliardi, nonché fondatore di Etihad la compagnia aerea che ha comprato l’Alitalia. Subito dopo viene il fondo americano BlackRock, poi la Banca centrale e il fondo sovrano della Libia, la Fondazione Cassa di risparmio di Verona e la Fondazione Cassa di risparmio di Torino. Dieci anni fa erano loro al comando, ma con la crisi sono scivolate sempre più giù. Seguono una serie di “azionisti stabili”, tra i quali Francesco Gaetano Caltagirone che possiede anche un pacchetto delle Generali. Tutti insieme fanno grosso modo il 26 per cento, il resto è in mano a una quantità di investitori istituzionali e individuali dei quali si fa interprete Assogestioni. Nonostante abbia la maggioranza, “il mercato” ha un solo rappresentante in consiglio di amministrazione, una economista che ha lavorato alla Banca centrale europea e ora insegna alla London Business School: Lucrezia Reichlin, figlia di Alfredo Reichlin, gran borghese, dirigente del Pci, appassionato di Stendhal che in gioventù aveva tradotto dal francese, e di Luciana Castellina giornalista e militante comunista tendenza manifesto.

 

La governance, come si dice, è dunque in mano al club delle relazioni eccellenti. Ci sono gli emissari dell’emiro, il vicepresidente Luca di Montezemolo (proprio lui l’ex Mr. Ferrari già presidente della Fiat e di Confindustria che oggi tutela gli interessi dello sceicco anche al vertice della ex compagnia di bandiera italiana) e Mohamed Hamad al Mehairi. Non è presente nessun libico, ma la doppia quota araba, che controlla quasi il 10 per cento del capitale, solleva non pochi problemi geopolitici e di sicurezza nazionale. C’è poi, a nome della fondazione torinese, Fabrizio Palenzona, testa politica dalle relazioni multiple. E’ stato a lungo, fin dall’èra Profumo, l’uomo forte di Unicredit, ma la sua figura è stata oscurata dall’inchiesta della magistratura su Andrea Bulgarella, l’imprenditore siciliano domiciliato in Toscana sospettato di legami con la mafia, al quale la banca ha prestato un fracco di quattrini. Non è uscito nulla di rilevante penalmente, ma quando il fango finisce nel ventilatore nessuno può prevedere dove va. Non solo. Un altro sostegno importante per Palenzona è stata la famiglia Benetton, che lo ha collocato al vertice degli Aeroporti di Roma. Ora i rapporti si sono raffreddati e si starebbe consumando il divorzio. Dunque, l’ex sindacalista dei camionisti e politico democristiano reinventatosi banchiere relazionale, esce indebolito da questo giro. All’opposizione dentro Unicredit resta la fondazione veronese che medita sempre la rivincita e mai la ottiene.

 

Con un assetto proprietario non proprio granitico, la prima banca italiana, compresa dalla Bce tra le dieci a impatto sistemico (cioè se crolla lei crolla tutto) ha perso colpi. Tra il novembre scorso e oggi ha ceduto il 37 per cento del proprio valore azionario, più di tutte le altre a parte il Monte dei Paschi di Siena (meno 66 per cento). L’amministratore delegato Federico Ghizzoni ha tagliato banche (come quella in Ucraina) e personale (annuncia 18 mila “esuberi”), cerca risparmi fino all’osso (oltre un miliardo di euro) per migliorare l’efficienza e soprattutto per evitare un aumento di capitale. Il patrimonio è ai minimi richiesti (10,44 per cento) e in molti sostengono che una banca del genere dovrebbe stare ben al di sopra. Dal fatidico autunno 2008 in cui Unicredit stava per crollare ci sono state tre ricapitalizzazioni; gli azionisti vogliono evitare la quarta. Riusciranno a cavarsela con la tattica del rinvio? Dati i tempi che corrono sarà difficile. E in Borsa tutti si attendono che, a quel punto, l’intero assetto azionario cambi ancora. Ciò allarma, e non poco, Mediobanca.

 

Unicredit non ha i pieni poteri in Piazzetta Cuccia. Anzi. Il secondo azionista, forte e battagliero, è Vincent Bolloré che ufficialmente possiede l’8 per cento del capitale. E’ entrato come cavaliere bianco nel 2001 chiamato da Maranghi sotto attacco, ha cambiato destriero due anni dopo, firmando un patto con i suoi ex avversari. Nelle Generali aveva dato un gran sostegno al proprio mentore Antoine Bernheim, prima di abbandonarlo al suo destino per appoggiare Geronzi mollato anche lui nel 2011 quando venne detronizzato da Mediobanca. Bolloré ha dovuto lasciare la carica di vicepresidente a Trieste perché condannato dalla Consob (avrebbe manipolato il titolo Premafin del gruppo Ligresti). Nel board delle Generali il suo posto in consiglio è stato preso da Jean-René Fourtou, presidente del consiglio di sorveglianza di Vivendi, con la quale il finanziere bretone ha conquistato il controllo di Telecom Italia abbandonata da Mediobanca e da Generali che l’avevano fatta galleggiare insieme agli spagnoli di Telefonica, dopo l’uscita di Marco Tronchetti Provera nel 2006. A capo della filiale italiana della compagnia di assicurazioni c’è un uomo che egli conosce bene e a tutt’oggi è il candidato numero uno alla poltrona di amministratore delegato. Si tratta di Philippe Donnet il quale ha trascorso ben 22 anni nella francese Axa e oggi siede anche nel consiglio di Vivendi. Si capisce, dunque, perché tra le preoccupazioni manifestate da Renzi c’è proprio il rischio che il Leone di Trieste parli francese e non più italiano e tedesco, le lingue e le culture d’elezione.

 

Generali ha bisogno di una scossa. Greco, amato e lodato dalla stampa nonostante un carattere lontanissimo dalla stereotipo napoletano, ha limato, tagliato e venduto tutto il vendibile, all’insegna del ritorno al mestiere. Più facile a dirsi che a farsi. Nel ramo auto il Leone viene insidiato dalla Unipol, la compagnia delle cooperative rosse, finita anch’essa sotto l’ala di Mediobanca da quando Nagel le ha ceduto le assicurazioni di Ligresti. Nel ramo vita, invece, è stretto nella morsa tra la Banca Intesa e le Poste. Nella classifica delle maggiori al mondo, guidata da Axa, le Generali sono scivolate all’ottavo posto (quarto in Europa). Secondo gli esperti, il gruppo ha i bilanci infarciti dai titoli di stato italiani i quali non solo non vengono più considerati a rischio zero, ma con i tassi ormai negativi non sono un buon affare. “Mentre la profittabilità è il suo punto forte, il tallone d’Achille è legato alla struttura del capitale”, sostengono gli analisti di CreditSights. Il mercato ha dato loro retta: un anno fa il titolo valeva 18 euro, oggi viaggia a quota 14.

 

Qual è dunque il futuro del Leone? Greco sapeva bene di non poter restare tra coloro che son sospesi. La compagnia ha bisogno di andare avanti per non arretrare, in altre parole dovrebbe comprare, crescere per linee esterne, fino a preparare, magari, delle lussuose nozze con un partito adeguato: la stessa Zurich dove dovrebbe andare Greco dopo le sue dimissioni, Munich Re o forse addirittura Allianz. e perché no Axa. Per far ciò, gli azionisti debbono tirar fuori i quattrini con il rischio di diluire le proprie quote in un gruppo molto più grande. Anatema. Il capo azienda voleva un mandato pieno e aveva chiesto un rinnovo triennale senza ipoteche. Mediobanca non glielo ha concesso, proponendo un passaggio di consegne a metà scadenza, quando Greco avrebbe compiuto 60 anni. E ha trovato il sostegno del socio De Agostini (che ha meno del 2 per cento) rappresentato da Lorenzo Pellicioli. Sono rimasti sorpresi Leonardo Del Vecchio e Franco Caltagirone (al 2 per cento ciascuno) i quali hanno appoggiato Greco. Vedremo come si schiereranno nella prossima battaglia.

 

[**Video_box_2**]E’ circolata in Borsa anche l’ipotesi che Mediobanca voglia pilotare le Generali verso Unicredit, magari con una fusione a tre (ipotesi che era stata valutata già nel terribile 2008). La voce non trova conferme, ma certo servirebbe a creare un vero campione bancarioassicurativo capace di competere sul mercato internazionale. Al comando di chi? Della solita Mediobanca e di Nagel? Il consiglio di martedì potrebbe trovare un compromesso temporaneo, confermando il presidente Gabriele Galateri e portando al vertice un triumvirato interno (Donnet, Giovanni Liverani, oggi ad per la Germania, e Alberto Minali, capo della finanza). Aspettando Godot, se arriverà. Ma sarebbe una soluzione al ribasso. Dalla morte di Cuccia in poi molti hanno attinto a quelle mammelle gonfie di nettare, però non è mai stato chiaro quale ruolo assegnare a una istituzione finanziaria che resta ancora oggi la più ricca e più solida del paese.

 

Tramontate le “banche di sistema”, quelle attorno alle quali ruotava un complesso industriale di taglia nazionale, come nel caso della Comit e del Credit, o locale (il Banco di Roma, il Banco di Sicilia, il Monte dei Paschi, tanto per citare tre esempi importanti), il risparmio degli italiani ha cominciato a vagare tra entità difficilmente definibili. La Banca Intesa creata da Giovanni Bazoli (che giunto all’età di 83 resta come presidente emerito fino al 2019) ha cercato di mantenere un equilibrio tra mercato e vocazione nazionale, del resto proprio l’avvocato bresciano ha sempre detto che voleva conciliare i bilanci con il Vangelo. Tutte le altre stentano, soffrono, cadono, scompaiono persino. L’Italia resta bancocentrica, priva di un sistema finanziario alternativo, ma in questi anni, complice anche la lunga recessione, è la banca ad aver perso il suo centro di gravità se non proprio permanente, almeno stabile. Alleanze, nozze, giochi di potere, scambi di poltrone rischiano di essere una ginnastica fine a se stessa, o nel migliore dei casi un teatro No recitato da maschere che lasciano agli spettatori immaginare la natura dei personaggi e il significato del loro agitarsi sul palcoscenico del mondo.