Nasce un nuovo capitalismo

Claudio Cerasa
Rcs, Rep, Fca, Generali, Telecom, Unicredit. Cosa sta cambiando nella nostra imprenditoria? L’assenza di una regia italiana, la crescita della regia francese, la chance di trasformare Palazzo Chigi nel salotto del capitalismo. Indagine.

Alla luce della storica aggregazione tra il gruppo De Benedetti e la famiglia Agnelli e alla luce dell’altrettanto storico bye bye presentato dalla famiglia Agnelli alla famiglia del Corriere della Sera c’è una domanda centrale alla quale occorre rispondere per inquadrare l’evoluzione del mondo imprenditoriale italiano: come sta cambiando il nostro capitalismo? La domanda naturalmente si intreccia a una serie di partite importanti che riguardano alcuni pezzi pregiati dell’establishment del nostro paese e c’è un filo sottile che unisce i nuovi equilibri dell’editoria italiana con gli equilibri futuri che da qui alla prossima primavera si andranno a determinare in Telecom, in Generali e in Unicredit, i cui vertici verranno rinnovati nell’arco di pochi mesi. Dire che il famoso salotto buono non esiste più è oggettivamente una non notizia e il ragionamento che bisogna fare per provare a capire come sta cambiando l’establishment è di natura diversa. Suona più o meno così: quello che potremmo chiamare il “capitalismo di sistema” non esiste più, le grandi partite che riguardano l’imprenditoria vengono smosse più da dinamiche di mercato che da dinamiche di sistema e rispetto a qualche tempo fa non esiste più una classe dirigente alla quale sia possibile attribuire il profilo del regista dei giochi di potere italiani. E se ci si pensa bene la fine della centralità del salotto Rcs, orfano oggi di una delle aziende italiane più importanti (la Fiat), arriva in una fase storica in cui il nostro capitalismo ha perso le sue coordinate originali.

 

La Fiat si allontana sempre di più dall’Italia. Mediobanca ha perso la sua funzione di perno. Intesa non ha più intenzione di svolgere il ruolo di banca di sistema. Unicredit è destinata presto a cambiare lingua e a parlare sempre più il tedesco e sempre meno l’italiano. Telecom la lingua l’ha già cambiata da tempo e da anni non è più il perno del sistema di relazioni del nostro capitalismo. Generali, già prima dell’uscita di Mario Greco, ha imboccato un percorso che difficilmente la porterà lontana dalla fusione con i giganti francesi dell’Axa. Le fondazioni bancarie non hanno più la liquidità necessaria per essere considerate attori principali del nostro sistema bancario (e anche chi ce l’ha la liquidità, come Cariplo, ha giustamente altri obiettivi). La Cassa depositi e prestiti non ha ancora lo spazio, e chissà se mai lo avrà, per muoversi da strategico fondo sovrano del governo. Banche come Mps difficilmente potranno avere una rete di protezione tale che permetta loro di non essere inghiottiti dai colossi stranieri. La generazione Nagel ha dimostrato di non avere i numeri giusti per pesare nelle grandi partite italiane. Confindustria, già prima dell’addio di Marchionne, ha perso la sua centralità ed è sufficiente guardare i curricula dei candidati alla presidenza per capire quanto l’associazione degli industriali sia rappresentativa del mondo industriale italiano (poco). E in questo grande e generale rimescolamento – all’interno del quale si trova un governo che ha sempre rivendicato la sua volontà di non ostacolare la mano invisibile del mercato – è sempre più evidente che c’è qualcuno che sta provando a riempire il vuoto determinato da un’assenza oggettiva di una regia.

 

Nel caso specifico quel qualcuno, oggi, coincide senz’altro con il profilo francese del finanziere Vincent Bolloré. Con la sua Vivendi, Bolloré oggi muove le pedine in Telecom e passerà da Bolloré (20 per cento di Telecom) e dalla Rock Investment controllata indirettamente dal francese Xavier Niel (15 per cento di Telecom) l’imminente rinnovo dei vertici dell’azienda. Da Bolloré non dipenderà forse il rinnovo imminente dei vertici di Unicredit (Mediobanca, di cui Bolloré è primo azionista, ha poco più dell’uno per cento di Unicredit) ma da Bolloré passerà invece il futuro di Generali. Primo azionista di Generali, come è noto, è Mediobanca, che della società assicurativa ha il 13 per cento. Se il sostituto di Mario Greco, che verrà eletto il prossimo 17 marzo, dovesse essere il francese Philippe Donnet, membro del supervisory board della francese Vivendi, ex manager di Axa e sostenuto più o meno esplicitamente dai francesi di Axa, si confermerebbe la teoria che il vero motore di Mediobanca oggi va individuato più nel salotto francese di Bolloré che in quello italiano di Nagel (e non sarebbe difficile scommettere sul fatto che una maggiore francesità del Leone triestino possa portare a un avvicinamento progressivo di Generali al mondo francese di Axa, facendo così crollare un altro grande totem della così detta italianità). Non si tratta naturalmente di voler dare un’accezione necessariamente negativa a un mondo imprenditoriale come quello italiano guidato più dalle dinamiche di mercato che dai patti di sindacato. Si tratta piuttosto di descrivere una rivoluzione in corso che riguarda il tessuto imprenditoriale del nostro paese, dove in mancanza di una regia ne subentrano delle altre e dove in mancanza di un centro direzionale ne emergono inevitabilmente degli altri.

 

[**Video_box_2**]Abbiamo parlato della regia francese che ruota attorno a Bolloré e si potrebbe persino immaginare un domani che nasca attorno a Bolloré (e al suo socio Tarak Ben Ammar) un polo mediatico alternativo a quello formato dalla coppia Repubblica-Fiat (Vivendi è da tempo interessata a muoversi su Mediaset). Abbiamo parlato dei francesi ma si potrebbe parlare anche della regia americana che ruota attorno al fondo BlackRock – fondo che negli ultimi anni ha conquistato quote importanti di Telecom Italia (6 per cento), Unicredit (4,9 per cento), Rai Way (5,2 per cento), Intesa Sanpaolo (5 per cento), Bpm (5 per cento), Banco Popolare (6,8 per cento), Generali (2,8 per cento), Fiat (2,8 per cento), Atlantia (5 per cento). Si potrebbe andare avanti per ore raccontando anche che gli spazi lasciati sguarniti dagli imprenditori italiani sono destinati (grazie al cielo) a essere riempiti da investitori e da fondi stranieri. Si potrebbe ricordare che su partite simili i francesi non ragionano sempre così, che gli inglesi non ragionano sempre così e che persino gli americani non ragionano sempre così. Ma alla fine il vero punto è questo. In Italia è in corso una rivoluzione. Il capitalismo di sistema non esiste più. O per lo meno, anche se parliamo di Italia, ha smesso da tempo di parlare la nostra lingua. La storia ci dirà se non avere una regia sia un bene o un male. Ma intanto c’è un dato di fatto incontestabile. Se il capitalismo diventa sempre meno di relazione e sempre più di mercato, le buone relazioni che contano non sono più quelle tra imprenditore e imprenditore ma sono quelle tra imprenditori e governo. E in virtù di questo nuovo equilibrio Renzi ha una grande occasione: semplicemente trasformare il governo nel salotto buono del capitalismo italiano.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.