La presidente della Suprema Corte di Cassazione, Margherita Cassano, il giorno dell'inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 (foto LaPresse)

l'intervista

Processo mediatico, paletti ai pm e governo. Parla Margherita Cassano

Claudio Cerasa

“Cari magistrati, la giustizia che insegue l'etica è espressione di uno stato autoritario”. Chiacchierata con la presidente della Corte di cassazione

Un anno fa, Margherita Cassano venne eletta come prima presidente della Corte di cassazione: era il 6 marzo del 2023 e molti osservatori si complimentarono con la signora Cassano per essere diventata la prima donna a ricoprire un incarico così importante. Nel corso di quest’anno ci si sarebbe aspettato da parte degli organi di informazione del nostro paese una qualche forma di curiosità rispetto alle idee coltivate dalla presidente sul mondo della giustizia italiana. Nulla di tutto questo è successo. E nulla è successo non perché il pensiero di Margherita Cassano sia poco interessante rispetto alle tematiche legate all’attualità. Ma perché se si accende il microfono quando parla la presidente della Cassazione si avrà la netta sensazione di ascoltare un alieno pronto, con il gusto della semplicità, della linearità e della razionalità, a offrire grosse delusioni a tutti coloro che ogni giorno cercano di dare spazio ai temi della giustizia solo quando questi aiutano a portare acqua al mulino della cultura della gogna.

Se si ha invece a cuore la cultura delle garanzie, accendendo il microfono quando parla la presidente Cassano si ricaveranno soddisfazioni. Lo abbiamo fatto ieri pomeriggio, incontrando la presidente, e ne è venuta fuori una conversazione interessante. Contro la cultura dello scalpo, il metodo della gogna, le esondazioni dei magistrati e il populismo penale portato avanti da chi sogna di affidare al codice penale la risoluzione di ogni problema che riguarda la contemporaneità.

“Ci sono alcuni tabù che andrebbero affrontati con urgenza quando si parla di giustizia”, ci dice Cassano. “Il primo tabù riguarda la necessità di acquisire una nuova consapevolezza: in una moderna democrazia, l’intervento giudiziario deve essere la extrema ratio, non la norma, e la giustizia penale dovrebbe essere l’ultimo approdo, non la regola”. Il ragionamento, dice Cassano, vale sia quando si parla di attività dei magistrati sia quando si parla di attività della politica. “Rispetto al tema dei delitti, dall’epoca di Mani pulite in poi si è registrata una tendenza evidente. Non sono rari i casi di magistrati che si occupano erroneamente di fenomeni, e non di reati e di fatti, e non sono rari i casi di magistrati che agiscono, per esempio quando in ballo vi sono reati legati alla pubblica amministrazione, senza chiedersi se le prove di colpevolezza permettano di essere convinti di un eventuale fatto commesso oltre ogni ragionevole dubbio”. D’altra parte, dice Cassano, se la politica offre alla magistratura occasioni per ampliare il proprio potere discrezionale, moltiplicando i casi in cui un pm può essere sollecitato, non ci si può poi stupire più di tanto se poi ci si trova di fronte a qualche magistrato che esonda. “Le decisioni di un legislatore sono insindacabili e non sta a me commentarle, ma ciò che si può dire è che il sistema giudiziario ha bisogno di poche regole chiare e ha bisogno di avere un quadro normativo stabile non caratterizzato da continue oscillazioni. Più un quadro normativo è mutevole, e poco chiaro, e più si lascia spazio alle interpretazioni e alla discrezionalità”. Cassano ci offre un bignè prelibato quando dice che un magistrato deve considerare “insindacabile” ciò che mette in cantiere il legislatore.

Le chiediamo se i magistrati che commentano le leggi e che a volte minacciano di combattere contro una qualche norma studiata dal governo rientrino all’interno del perimetro del buon magistrato. Cassano sorride. “Un moderno magistrato che opera in un ordinamento complesso, che desidera portare avanti una leale collaborazione con le istituzioni e che non faccia di tutto per delegittimare la nostra professione dovrebbe intervenire pubblicamente solo per questioni tecniche. Un magistrato moderno, rispettoso del ruolo che riveste, dovrebbe ricordarsi, ogni giorno, quanto siano importanti tre elementi chiave della nostra professione: terzietà, autolimite e responsabilità. Uscire fuori da questo perimetro è pericoloso”.

Cassano è molto preoccupata dai magistrati che esondano ma nota che nel mondo della giustizia qualcosa sta cambiando. “Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa nel mondo della giustizia: i magistrati, al pari degli avvocati, sono sempre più consapevoli del fatto che sia in ambito civile sia in quello penale sia necessario accorciare i tempi dei procedimenti incontrandosi, parlandosi e arrivando a una forma di mediazione. Vi riporto un dato che mi ha colpito: nel settore civile le pendenze sono diminuite dell’8,2 per cento nei tribunali e del 9,8 nelle Corti d’appello. La durata media dei procedimenti si è ridotta in primo grado del 6,6 per cento e in appello del 7. Il disposition time è sceso del 6,4 per cento nei tribunali e del 6,4 nelle Corti d’appello”. Accanto a questi numeri positivi ve ne sono degli altri meno incoraggianti e sono quelli che riguardano il sovraffollamento carcerario che attualmente, come descritto dalla stessa Cassano nella sua relazione di inizio anno, conta una presenza di 62.707 detenuti (di cui 2.541 donne) rispetto ai posti disponibili pari a 51.179. “Superare una logica della giustizia carcerocentrica significa convincersi del fatto che il sovraffollamento carcerario dipende da due fattori: dal fatto che talora si è portati a enfatizzare la risposta penale come unica risposta a fenomeni sociali che meriterebbero diverse forme di intervento e dal fatto che non vi siano differenze quando si manda qualcuno in carcere tra chi ha una carica di pericolosità sociale alta e chi invece non ce l’ha”. Oltre a suggerire, temiamo vanamente, un nuovo approccio sulle carceri, Margherita Cassano accetta di inserire tra le priorità assolute dell’agenda giudiziaria italiana una battaglia culturale che la presidente considera necessaria: affrontare il processo mediatico e provare a smontarlo dal suo interno. “Non faccio fatica a definire il processo mediatico una patologia del nostro stato di diritto e non faccio fatica a definire una oscenità l’enfatizzazione dei processi mediatici in pendenza nella fase delle indagini preliminari, enfatizzazione che porta a considerare la persona nei cui confronti è formulata un’ipotesi di accusa tutta da verificare come soggetto già colpevole, attribuendogli loro uno stigma sociale che non si recupera nel tempo. Lo schema è sempre lo stesso: più è forte il divario temporale tra le indagini e il processo maggiore sarà l’attenzione dedicata all’accusa rispetto alla notizia legata a una sentenza. Si tratta di un danno doppio. Un danno per chi viene accusato, e ogni accusato ha diritto non solo, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione a essere considerato innocente fino a sentenza definitiva ma anche, come prevede l’articolo 2, ad aver riconosciuti e garantiti i propri diritti inviolabili. Ma è un danno anche per il processo stesso, perché spesso la grancassa mediatica ha un effetto negativo e distorsivo sull’acquisizione delle prove: pensi a cosa succede quando un giudice popolare si ritrova a dover giudicare su un fatto condizionato dall’onda emotiva generata dal processo mediatico. Sento spesso parlare di una dialettica tra garantisti e giustizialisti. Ma onestamente non capisco il senso di questa dialettica: i garantisti conoscono e rispettano la Costituzione, i non garantisti non conoscono e non rispettano la Costituzione”.

Serve limitare l’utilizzo delle intercettazioni irrilevanti? “Ripeto: abbiamo un apparato normativo chiaro, si tratta di applicarlo”.

Insistiamo: cosa occorre fare, per Margherita Cassano, per disinnescare gli ingranaggi del processo mediatico? “C’è un tema certamente che riguarda la stampa. Non sta a me dire se servano o no nuove regole, mi limito a osservare che sarebbe sufficiente conoscere le regole che vi sono oggi provando a farle rispettare, anche quando si tratta per esempio di fughe di notizie, e mi limito a notare che chi informa trasformandosi nella buca delle lettere dell’accusa non aiuta a combattere il processo mediatico. Occorre anche dire però che vi è un tema culturale che riguarda la magistratura. Non sta a me dire quali sono gli strumenti che alimentano il circo mediatico ma sta a me dire che alla base delle storture del nostro stato di diritto vi è l’idea che da parte dei magistrati vi sia una missione morale. Lo dico chiaramente: guai a una giustizia che abbia una dimensione etica perché  quella è espressione di uno stato autoritario. E le dico di più”. Prego. “Le dico che a mio avviso chi ha responsabilità nella fase delle indagini dovrebbe tornare ad avere come regola prioriaria l’applicazione del metodo popperiano della falsificazione, e chiedersi dunque sempre, in qualsiasi momento, se quella che ha di fronte è l’unica spiegazione plausibile nella ricostruzione di un fatto o se ci sono alternative”.

Per offrire maggiore equilibrio nel mondo giudiziario è necessario separare le carriere? Cassano sorride ancora. “Guardi, sono la persona sbagliata a cui chiederlo: sono stata prima magistrato requirente e poi giudice. Mi sembra un falso problema, che riguarda appena il due per cento del totale dei magistrati. Fin dalla riforma del 2006, le norme che sono state introdotte sono così rigorose che hanno inibito il passaggio di ruolo nello stesso distretto: se vivi in un distretto e fai il magistrato con funzioni penali, per fare il giudice penale devi cambiare distretto. Le norme ci sono, anche qui, basterebbe solo rispettarle”.

Cassano infine sostiene, a proposito di processi fatti sui giornali, che il sistema mediatico dovrebbe anche aiutare a far emergere la differenza che vi è tra l’Italia percepita e quella reale e Cassano non capisce come sia possibile, per esempio, che “a fronte di dati sulla corruzione in Italia che testimoniano la presenza di un problema che per nessuna ragione può identificarsi come una degenerazione incontrollata  sia un racconto del paese così lontano dalla realtà, dove il percepito si trova anni luce da ciò che risulta nella realtà”. Meno fuffa, più realtà. Lo stato di diritto, volendo, lo si difende anche così.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.