L'editoriale del direttore

Le discutibili indagini sotto l'occhio del tribunale del popolo

Claudio Cerasa

Rosa, Olindo e gli altri. Ci sono casi in cui lo stato di diritto, per esigenze mediatiche, è andato a farsi benedire. Le colpe di un sistema giudiziario che a forza di utilizzare la tecnica dello “smarmella tutto” ha mostrato una incapacità di fare indagini sul campo

Fuggite dalla fuffa e concentratevi sulla ciccia. E la ciccia in fondo è tutta qui: le indagini, bellezza. Ci sono due modi diversi di leggere le notizie relative al caso Erba e alla possibile revisione del processo. L’approccio numero uno, molto progressista, porta a pensare che i magistrati abbiano sempre ragione e che dunque ogni rumore di fondo che arriva all’interno di un’indagine sia una distrazione dalla verità rivelata. L’approccio numero due, molto conservatore, porta invece a pensare che i magistrati abbiano sempre torto e che dunque anche l’inchiesta più solida alla fine meriti di essere messa in discussione solo per il gusto di poter dire che i magistrati hanno sempre torto. Sul caso Erba le due scuole di pensiero si sono nuovamente confrontate, senza smuoversi dalle proprie idee, ma c’è una terza via per districarsi intorno a questi due approcci ed è una via che ci sentiamo in dovere di riproporvi per non perdere di vista la ciccia. Il problema non è il garantismo o il giustizialismo. 


Il problema, nella storia di Erba, come in molte altre è uno e soltanto uno ed è il modo in cui in Italia vengono fatte le indagini quando le indagini diventano una notizia da prima serata. E’ a quel punto che scatta un meccanismo perverso. La storia di cronaca diventa centrale. Il popolo si appassiona, divora ogni dettaglio, vuole sapere tutto e lentamente da pubblico diventa prima attore e poi giudice. E quando un fatto di cronaca si ritrova a dover fare i conti con il voyeurismo del pubblico, con il tribunale del popolo, succede che gli inquirenti, coloro che hanno in mano le indagini, siano costretti a fare una scelta: chiudere le indagini il prima possibile, facendo in fretta, per sfamare il mostro del circo mediatico o tenere le indagini aperte il tempo necessario, senza fretta, senza sentirsi in dovere di dover sbattere qualcuno in galera solo per far tacere il tribunale del popolo. Quando il caso di cronaca diventa parte del dibattito pubblico la fretta prevale sulla ragione e le indagini spesso ne risentono.

Stefano Nazzi, fantastico cantastorie di cronache giudiziarie del Post, lo ripete spesso: il punto non è come le indagini influenzano l’opinione pubblica, ma come l’opinione pubblica influenza le indagini. E quando si parla di Erba, e non solo di Erba, la ciccia è tutta qui. Leggete cosa dice il procuratore Cuno Tarfusser, deciso da anni a far riaprire il caso di Erba. Su Erba, parla di errate tecniche di intervista investigativa, “dense di numerosissime suggestioni su di lui attuate e la palese violazione di precise e note leggi scientifiche in materia di memoria e di riconoscimento di volti”. Parla di una storia “fortemente dubbia” che sarebbe “la prova della ‘macchia di sangue’ (sangue della vittima Valeria Cherubini che sarebbe stata trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano)” con confessioni “indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo”. Definisce le dichiarazioni autoaccusatorie di Romano e Bazzi “false confessioni acquiescenti”, in quanto la confessione dei due imputati venne ritrattata, definita “una vera e propria circonvenzione”, ottenuta “sotto pressione”. La richiesta piccona dunque i tre pilastri dell’accusa.  Tarfusser pensa che Olindo e Rosa siano innocenti. Noi non ci spingiamo a tanto, avendo in fondo gli accusati confessato in diretta tv l’omicidio, ma ci spingiamo a dire altro: in Italia, le indagini vengono fatte così male, quando vi sono casi di cronaca che diventano improvvisamente mediatici, che anche processi che sembrano  ovvi, lineari, senza sorprese possono offrire sorprese. E i casi di processi mediatici fatti con la tecnica dello smarmella tutto, famosa espressione utilizzata in “Boris” dal mitico Duccio Patanè (Ninni Bruschetta) per sfumare con un colpo di luce i difetti degli attori, sono ormai molti. Sono casi in cui lo stato di diritto, per esigenze mediatiche, è andato a farsi benedire. E sono casi in cui improvvisamente si scopre che a causa di indagini fatte con i piedi, anche le verità che appaiono scontate non lo sono.

Si scopre così che, durante le indagini sull’omicidio di Meredith Kercher, compiuto a Perugia la sera del primo novembre del 2007, Amanda Knox venne interrogata per 54 ore in assenza di un avvocato (l’Italia per questa vicenda è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani). Si scopre così che, durante il processo sull’omicidio del carabiniere Cerciello, i due studenti imputati non hanno subìto un giusto processo, perché, così ha deciso la Cassazione, non è detto che Cerciello e il collega Varriale si siano qualificati come appartenenti alle forze dell’ordine e i giudici, ha scritto la Cassazione, sono incorsi “in un deprecabile e manifestamente illogico automatismo”. Si scopre così, ancora, che nel processo Stasi, a Garlasco, un ex maresciallo avrebbe mentito di fronte al gup del tribunale per giustificare un suo errore investigativo, quando cioè scelse di non sequestrare la famosa e cruciale bicicletta nera custodita nell’officina del padre di Alberto Stasi. Si scopre così, sul caso Yara, che il famoso filmato del furgone bianco di Massimo Bossetti che passa e ripassa davanti alla palestra di Yara Gambirasio il giorno della sua scomparsa è in realtà stato trasmesso per mesi su web e tg senza che fosse reale, perché era un video confezionato ad hoc. Si scopre così, ancora, dopo trent’anni di indagini, che sul delitto di Simonetta Cesaroni non tutte le indagini sono state fatte bene, non tutte le piste sono state seguite, non tutte le persone scagionate possono essere considerate come tali. Nel migliore dei casi, per così dire, i processi vengono riaperti. Nel peggiore dei casi, invece, i processati alla fine risultano innocenti. E quando vi è di fronte a voi la possibilità che vi sia una revisione di un processo, più che chiedervi chi sia innocente e chi no chiedetevi se possa essere considerato innocente un sistema giudiziario che a forza di utilizzare la tecnica dello smarmella tutto ha mostrato un’incapacità diffusa nel fare indagini sul campo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.