Ansa 

La riflessione

Giudici o politici a latere? Come distinguere i ruoli

Giovanni Fiandaca

La denuncia del ministro Crosetto sulla “opposizione giudiziaria” ha suscitato critiche. Ma nei sistemi democratici la funzione di “contropotere” della magistratura esiste

Le accese polemiche seguite alle dichiarazioni del ministro Crosetto al Corriere della sera ripropongono l’annosa e controversa questione della politicizzazione della magistratura o, comunque, del ruolo politico da essa svolto all’interno del sistema politico complessivo. Finora non sappiamo – e, forse, non sapremo mai – se, nel denunciare il pericolo di possibili attacchi all’attuale governo da parte di una “opposizione giudiziaria” in funzione antagonista, Crosetto alludesse a rischi concreti derivanti da qualche specifica indagine in corso o enunciasse un timore astratto basato sulla storia politico-giudiziaria degli ultimi decenni. Una storia che, come sappiamo, è tutt’altro che priva di elementi sintomatici a supporto della convinzione, o comunque del fondato sospetto che una parte almeno dei magistrati penali abbia potuto aprire indagini e celebrare processi – al di là del fine istituzionale di perseguire reati – con l’ aggiuntivo proposito improprio di utilizzare la giustizia penale per scopi politici, vale a dire per porre in crisi governi sgraditi o per promuovere più in generale il rinnovamento dei ceti dirigenti e la moralizzazione collettiva.

A volte, andando alla preventiva ricerca – in base al pregiudizio ideologico (tipico in origine della corrente associativa di Md, ma poi estesosi fuori dai suoi confini) che il principale compito della giurisdizione consista nell’esercitare un controllo di legalità sull’esercizio dei pubblici poteri – di reati eventuali o possibili, piuttosto che partendo  da concreti indizi di ben profilate ipotesi delittuose – il che può, d’altronde, contribuire a spiegare l’elevato numero di proscioglimenti e assoluzioni di imputati appartenenti al ceto politico o alla variegata categoria dei colletti bianchi. La cronaca abbonda di esempi riportati anche su questo giornale, per cui possiamo astenerci dal farne.Certo, è difficile distinguere, di caso in caso, tra indagini indebite accese per mera imperizia tecnica e indagini motivate invece dal prevalente perseguimento di fini politici. Ma, ove risultasse davvero dimostrabile una finalità politica predominante, varrebbe senz’altro anche per i magistrati d’accusa un principio prospettato, più in generale, dalla Cassazione in materia di abuso funzionale: il principio cioè secondo cui rappresenta una illecita deviazione dai fini istituzionali il perseguimento, nel concreto esercizio di una funzione pubblica (nel nostro caso la funzione giudiziaria), di obiettivi difformi da quelli per i quali il potere d’intervento è stato legalmente attribuito. Insomma, un’indagine aperta per motivi di opposizione politica, ma priva di sufficienti presupposti tecnici, integrerebbe forme di abuso sanzionabile. 
 

A questo punto, vi è però da chiedersi se si possa parlare di “opposizione giudiziaria” in una accezione diversa e meno condannabile, ancorché pur sempre non priva di profili problematici. Per quanto paradossale possa a prima vista apparire, la possibilità di attribuirvi un senso differente emerge implicitamente, ad esempio, da una intervista rilasciata a Repubblica (del 28 novembre scorso) proprio da uno dei magistrati che si sono affrettati a contestare la denuncia di Crosetto, cioè Eugenio Albamonte (pm a Roma ed ex segretario di Area). Richiamo in particolare questa sua affermazione: “(…) il governo, investito di un ampio consenso maggioritario, pensa che le toghe debbano obbedire alla sua linea politica e non rispettare la Costituzione e le fonti sovranazionali”. Orbene, affiora da queste parole l’idea (che, beninteso, è diffusa tra i magistrati ben al di là della corrente magistratuale di sinistra di cui Albamonte è stato presidente) che le toghe siano non solo legittimate, ma tenute a contrastare la politica del governo ove ravvisino un contrasto tra quest’ultima e i principi del costituzionalismo nazionale o sovranazionale. Si attribuisce così, dunque, al potere giudiziario una funzione oppositiva, contestatrice o antagonista, che dir si voglia.

E la domanda che incombe è questa: si tratta di una “opposizione giudiziaria” in nome della Costituzione esercitabile in termini di stretto diritto, o basata in qualche modo e misura anche su valutazioni di tipo sostanzialmente politico? (Nel porre l’interrogativo, mi riferisco – è forse superfluo precisarlo – a una accezione di “politica” che è diversa da quella usuale della politica partitica che si svolge nell’ambito dei governi e dei parlamenti e che si basa sul consenso e la competizione elettorale: alludo a un concetto più lato di politica quale sfera che riguarda le scelte di valore, gli obiettivi, le preferenze e le deliberazioni su come progettare e attuare modelli di convivenza umana e che, come tale, trascende l’attività dei  politici di professione e finisce col coinvolgere gli stessi cittadini comuni). A ben vedere, la risposta è nel senso della seconda alternativa per le ragioni che provo a sintetizzare. 


Innanzitutto, premetto che la concezione di vecchia ascendenza illuminista – non di rado riecheggiata pure in alcuni interventi su questo giornale – che pretenderebbe di confinare i giudici nel ruolo di “bocca della legge”, cioè di quasi esecutori passivi (se non di servi sciocchi!) della volontà legislativa espressa dai decisori politici di turno, è non solo un retaggio ideologico superato dai tempi; essa non ha mai fatto realisticamente i conti con  quello che i magistrati effettivamente fanno nell’interpretare e applicare disposizioni normative: l’interpretazione giudiziale è per sua natura – piaccia o non piaccia – un’attività inevitabilmente caratterizzata da spazi più o meno ampi di discrezionalità e, per di più, non esente da momenti ‘creativi’ (salvo, poi, mettersi d’accordo su significato e limiti di questa creatività giurisprudenziale: questione complessa e controversa che qui non può essere affrontata). Ciò è tanto più vero, quanto più è andata diminuendo negli anni la capacità dei legislatori di definire norme chiare e di contenuto univoco. Ha scritto già più di un ventennio fa ad esempio Gaetano Silvestri, valente costituzionalista tutt’altro che sospettabile di tentazioni eversive del diritto legislativo: “La frammentazione dell’ordinamento positivo, la carenza di scelte chiare del legislatore, la compresenza nella stessa legge di anime contrastanti, mal conciliate dalla confusa, e spesso rozza, sutura dei numerosi emendamenti (…) costringono il giudice a dare alla legge un senso destinato ad urtare una delle sue anime ed i relativi sostenitori. In questa opera di precisazione, il giudice sarà certamente guidato dalle sue opinioni politiche, ideali, sociali”. Orbene: in questo complesso orizzonte di riferimento, è il giudice-interprete che desume dalla legge scritta, sulla base di opzioni politico-valutative anche a carattere soggettivo, la ‘norma’ reale da applicare ai casi oggetto di giudizio.  


Ma vi è di più. L’apporto conformativo e la dimensione soggettiva dell’interpretazione giudiziale sono destinati a crescere quando sono in gioco le disposizioni della Costituzione, e in particolare quelle che richiamano principi o valori generalissimi e di contenuto indeterminato o vago (come ad esempio libertà, uguaglianza, dignità umana e simili), la cui concretizzazione interpretativa difficilmente può essere posta del tutto a riparo da pre-comprensioni e opzioni valoriali a loro volta condizionate dal previo orientamento politico-ideologico e dalla sensibilità personale dei vari interpreti; e questo condizionamento soggettivo è inevitabile – non ultimo – al momento di effettuare le operazioni di cosiddetto bilanciamento, tipiche della giurisprudenza costituzionale, tra principi o valori confliggenti. Non vorrei fare troppo il professore, ma sono in buona compagnia nel rilevare che è stato proprio il passaggio dal vecchio Stato legislativo ottocentesco alla democrazia costituzionale contemporanea ad avere sia potenziato il ruolo e il peso del potere giudiziario, sia fatto emergere un tendenziale suo maggiore  antagonismo verso il potere politico ufficiale: in chiave cioè di ‘contropotere’ nei confronti di Parlamento e governo, tutte le volte in cui le decisioni politiche adottate con logica maggioritaria si pongano in contrasto con regole, principi o valori costituzionali; un ruolo, non a caso,  etichettato in sede dottrinale come antimaggioritario o contromaggioritario.

Corrispondentemente, si è assistito ormai da non pochi anni, nei paesi a democrazia costituzionale, a una diffusa tendenza della giurisdizione a fungere da principale istanza tutrice di diritti o promotrice di nuovi diritti, atteggiandosi essa così a canale alternativo e supplementare rispetto ai circuiti politico-partitici, divenuti sempre meno capaci di soddisfare le aspettative di tutela e di giustizia dei cittadini, e specie di quelli appartenenti ai ceri sociali più svantaggiati. Da qui l’assunzione da parte dei giudici di una funzione – appunto – latamente politica, volta a correggere o integrare gli esiti di decisioni politico-legislative confinate in chiuse logiche maggioritarie (un siffatto ruolo politico, beninteso, riguarda in primo luogo la giurisdizione costituzionale e civile, e non può essere automaticamente esteso alla giustizia penale, soggetta – ameno in teoria – a maggiori vincoli in chiave di riserva di legge parlamentare). Ora, se inteso nel suddetto quadro di  riferimento, escluderei  che il concetto di “opposizione giudiziaria” sia inaccettabile perché – come ha obiettato il presidente dell’Anm Santalucia –  equivarrebbe a una aberrazione eversiva  o a un fenomeno inquietante sul piano costituzionale: opposizione giudiziaria può divenire invece un concetto legittimo se lo si usa come equivalente della funzione di contropotere (nel senso di cui sopra) che il potere giudiziario assolve nell’ambito delle democrazie costituzionali odierne. 


 Tutto normale e pacifico, dunque? Fino a un cero punto. In verità, non sempre risulta agevole distinguere l’interpretazione correttiva o integratrice secondo Costituzione dalla tentazione di un interventismo e di una supplenza politica che pretendano pregiudizialmente di contrapporre autonome politiche giudiziarie del diritto alle politiche del diritto decise in sede parlamentare e/o governativa, avversate da giudici contestatori perché ritenute timide, insufficienti, troppo compromissorie o comunque poco condivisibili nei contenuti (se una tale tentazione  – come può pure accadere – prendesse a volte il sopravvento, ci troveremmo di fronte ad una opposizione politica per via giudiziaria decisamente illegittima perché contrastante con i fini della giurisdizione e contraria al principio della divisione dei poter). E questa oggettiva difficoltà di distinzione mai potrebbe indurre ad avallare il libertinaggio ermeneutico, ancorché sorretto da buone intenzioni. Si avverte piuttosto come ineludibile una esigenza di misura, di self restraint per non cancellare quelle pur sottili linee di confine tra politica e diritto, il cui mantenimento rientra tra i presupposti essenziali di uno Stato di diritto degno di questo nome. Una esigenza di contenimento che difficilmente, peraltro, può essere imposta alla magistratura dall’esterno o per comando autoritativo. Come non mi stanco di ribadire (cfr. il mio precedente intervento sul Foglio del 9 maggio scorso), è soprattutto una questione di cultura del diritto e della giurisdizione, sulla quale incidono una pluralità di fattori a carattere sistemico, a cominciare invero dalla qualità della cultura e dell’agire delle forze politiche di governo. Da questo punto di vista, una buona politica contribuisce senz’altro a una buona giurisdizione (sembra più difficile, invece, che possa accadere il contrario).

 

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