Caso Regeni? No, non si sostituisce la diplomazia con la giustizia penale

Francesco Compagna

Il giovane ucciso in Egitto ha pagato con la vita il generoso desiderio di vedere affermati i diritti al cospetto di un'oppressione autoritaria: negare oggi, in suo nome, un fondamentale principio di garanzia della libertà individuale appare come un inutile sacrilegio

Il procedimento penale attualmente pendente a Roma per la tragica morte di Giulio Regeni potrà andare avanti in assenza degli imputati, sebbene gli stessi non abbiano ricevuto alcuna notifica in conseguenza della mancata collaborazione dello stato egiziano. Ieri pomeriggio, l’Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale ha infatti dato notizia dell’avvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art.420 bis del codice di procedura penale, in forza del quale deve essere assicurata all’imputato la formale conoscenza del procedimento instaurato a suo carico. Non serve essere esperti di procedura penale per comprendere l’importanza di una simile norma: la precisa conoscenza dell’accusa formulata, dei suoi presupposti e del luogo di svolgimento del processo costituisce, all’evidenza, il presupposto essenziale affinché la persona citata in giudizio possa effettivamente difendersi.

 

Per estremo paradosso, la nostra Corte costituzionale ha invece ritenuto che una norma destinata a dare attuazione a uno dei principi fondamentali del processo penale risulterebbe addirittura contraria alla Costituzione in quanto violerebbe la Convenzione di New York contro la tortura: quando uno stato estero non collabora, e non consente quindi all’imputato ivi residente di venire a conoscenza degli atti, il processo a suo carico potrà quindi andare avanti lo stesso anche in assenza di qualsiasi contraddittorio.

 

Nei prossimi anni, a meno di ulteriori colpi di scena, i giudici romani saranno pertanto chiamati a “validare” l’esito delle indagini che sono state effettuate a distanza dalla procura di Roma, senza alcuna reale possibilità di addivenire a un attendibile accertamento dei fatti e di dare quindi risposta a quell’ansia di verità che viene spesso sbandierata nel dibattito pubblico come se si trattasse di uno slogan pubblicitario. Del resto, anche a prescindere dal problema delle notifiche, è evidente che gli imputati egiziani non saranno certo in condizione di partecipare liberamente a un simile processo, né tantomeno di esporre al Tribunale di Roma la loro versione dei fatti.

 

Considerato il clamore mediatico assunto dalla vicenda, la sentenza della Consulta – la cui formale pubblicazione è prevista per le prossime settimane – sembra purtroppo destinata a trovare ampia condivisione in ambito politico, e ancor prima nell’intero panorama giornalistico, ormai da tempo permeato da un populismo assolutamente trasversale che vede nel processo penale uno degli strumenti più efficaci per diffondere efficacemente istanze sociali o prese di posizione ideologica.

 

Ma come è possibile che i custodi dei principi costituzionali arrivino al punto di interpolare le norme esistenti per dare il via libera a un processo privo di qualsiasi contraddittorio? Conoscendo l’autorevolezza dei giudici della Corte, è probabile che nemmeno loro – faticosamente impegnati sul piano tecnico nel tentativo di individuare un qualche percorso logico che potesse suffragare una “deroga” ai principi fondamentali – si siano resi conto della profondità della frattura in tal modo arrecata al nostro ordinamento giuridico.

 

Con quale convinzione si potranno continuare a invocare nelle nostre aule giudiziarie le garanzie in questione, più volte richiamate anche dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, se noi stessi siamo stati i primi a violarle per ragioni di natura politica? E soprattutto: come possiamo accettare che il processo penale si stia trasformando in uno strumento destinato ad appagare le aspettative delle vittime, e dell’opinione pubblica in genere, invece che a ricostruire con precisione le responsabilità individuali, se possibile in tempi ragionevoli, in vista di una successiva eventuale sanzione?

  

Da oggi, sarà purtroppo chiaro a tutti che la giustizia penale può essere addirittura utilizzata per affrontare questioni che riguardano semplicemente i rapporti con altri stati e che il nostro sistema giudiziario si sta progressivamente allontanando dalla funzione che gli è propria per dirigersi verso lidi sconosciuti, sotto la spinta di vorticose istanze mediatiche e di un desolante conformismo politico-giudiziario che finisce per banalizzare anche le vicende più toccanti. Proprio Giulio Regeni ha pagato con la sua vita il generoso desiderio di veder affermati dei diritti al cospetto di un'oppressione autoritaria: negare oggi, in suo nome, un fondamentale principio di garanzia della libertà individuale appare davvero come un inutile sacrilegio.

Di più su questi argomenti: