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L'editoriale del direttore

Il populismo penale è un'altra arma di distrazione di massa. Indagine intorno a un'emergenza bipartisan

Claudio Cerasa

L'istituzione di nuovi reati e l'aumento delle pene sono le uniche forme di intervento in materia di giustizia contemplate dalla politica italiana. Misure che gettano fumo negli occhi dell'opinione pubblica ma non risolvono nulla

Rave illegali, aumentate le pene fino a sei anni. Traffico di migranti, aumentate le pene fino a trent’anni. Violenza di genere, aumentate le pene fino a cinque anni. Violenza contro il personale sanitario, aumentate le pene di un terzo. Violenza contro il personale scolastico, aumentate le pene fino a sette anni. Omicidio nautico, aumentate le pene fino a dieci anni. Reato universale di gestazione per altri, aumentate le pene fino a due anni. Occupazione abusiva di immobili, aumentate le pene fino a due anni. Incendi boschivi, aumentate le pene per i piromani fino a sei anni di carcere. Istigazione all’anoressia, proposta reclusione fino a quattro anni. Istigazione alla violenza sui social, proposte pene fino a cinque anni. Muri imbrattati, proposta reclusione fino a un anno. Acquisto di merce contraffatta, proposte pene fino a un anno. Truffa ai danni di soggetti minori o anziani, proposte pene fino a sei anni. Dispersione scolastica, proposto aumento di pena fino a due anni per i genitori che non mandano i figli a scuola. Baby gang, pene più severe per i minorenni, fino a cinque anni per spaccio. Abbiamo fatto del nostro meglio e li abbiamo messi insieme tutti. Tutti cosa? Lo avete visto: tutti gli aumenti di pena approvati dal governo Meloni e tutti gli aumenti di pena proposti dalla maggioranza di centrodestra negli ultimi dieci mesi. Abbiamo fatto un calcolo per difetto e alla fine la somma degli anni di pena in più che il governo ha scelto e proposto di aumentare si avvicina alla famosa quota cento così amata da Salvini. Sono novantadue, ma certamente ci siamo persi qualcosa (e ce ne scusiamo). Il succo del ragionamento è evidente. Per la politica, aumentare le pene è come giocare al Superenalotto: lo sforzo è poco, il costo è ridotto, ma l’impressione di essere impegnati a fare qualcosa che improvvisamente potrebbe cambiare tutto è forte. E sul momento, tanto basta per sentirsi appagati. Aumentare le pene, per il governo, provoca le stesse vibrazioni:  basta aggiungere un comma, una legge, due righe, una sanzione in più e il gioco è fatto. Ieri, il Consiglio dei ministri, come sapete, ha approvato un pacchetto di norme pomposamente presentato come una grande “stretta” sulla sicurezza. E lo schema è ormai collaudato. L’attenzione dell’opinione pubblica viene catturata da un fatto di cronaca che suscita emozioni, sdegno, indignazione. La politica, istantaneamente, sente il bisogno di fare qualcosa per mostrare di essere sul pezzo. E per provare a essere fortissimamente sul pezzo, decide di utilizzare l’aumento delle pene come un gesto concreto, per così dire, per ottenere alcuni risultati precisi. 

 

Primo: indicare ai propri elettori la bellezza dei propri muscoli. Secondo: mostrare sensibilità nei confronti della vittima di un reato. Terzo: mostrare vicinanza nei confronti di chi si è indignato per quel fatto grave. Quarto: trasformare la spietatissima stretta in una maschera utile a nascondere la propria incapacità a lavorare sulla prevenzione di un reato. Quinto: creare un terreno di potenziale scontro con i propri avversari, mossi dal desiderio di trasformare ogni critica alla stretta in una manifesta insensibilità verso il tema su cui si interviene. Non ti piace il nostro illuminato aumento delle pene? E allora è ovvio: sei amico dei comunisti che organizzano rave illegali, sei indifferente al traffico dei migranti, sei ipocrita sulle violenze di genere, sei insensibile alle violenze contro il personale sanitario, sei strafottente verso le minacce al personale scolastico, sei un complice di chi acquista figli da uteri in affitto, sei solidale con chi occupa abusivamente immobili, sei amico di chi imbratta i musei, sei complice degli orrori delle baby gang. L’aumento sistematico delle pene è possibile che permetta di raggiungere molti di questi obiettivi. Tutti probabilmente ma tranne uno: quello di litigare con i propri avversari su questo tema. Sarebbe bello dire che l’approccio securitario è una caratteristica esclusiva della destra populista. Sfortunatamente, però, l’uso della legislazione d’emergenza – con adozione di nuove norme penali, inasprimento di norme preesistenti, allargamento dei poteri di indagine giudiziaria – è una scorciatoia comoda per tutti. E la scelta di passare la palla ai magistrati, sempre, anche a costo di dilatare a dismisura il potere di intervento, andando a intasare ancora di più i tribunali, è una scelta drammaticamente bipartisan, come dimostra la reazione del Pd ai fatti di Brandizzo (il Partito democratico ha chiesto, nell’ordine, di introdurre un nuovo reato, “l’omicidio sul lavoro”, e di costruire una nuova commissione di inchiesta parlamentare. Una logica ferrea d’altronde: da anni si aumentano le pene per prevenire reati ad alto impatto emotivo e poi però si sostiene contemporaneamente che l’unico modo per intervenire su quei reati sia quello di aumentare ancora di più le pene, ammettendo involontariamente che l’aumento precedente delle pene non ha portato ad alcun risultato. “Aumentare le pene – ha scritto sconfortato giorni fa sul nostro giornale il professor Giovanni Fiandaca – è un modo semplice per ottenere titoli dei giornali e per evitare di spendere tempo e risorse per una seria prevenzione che costa sacrificio e porta risultati non immediati. La scorciatoia è sempre la stessa: coprire con il populismo penale la propria incapacità di affrontare alla radice i mali sociali via via emergenti delegando di fatto al potere giudiziario il compito di trattarli secondo i paradigmi delle colpe e dei castighi individuali”. State attenti però a essere d’accordo con il professor Fiandaca. Potrebbe essere la spia della vostra frequentazione dei rave, della vostra vicinanza ai trafficanti di migranti e alla vostra amicizia con le baby gang. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.