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nel gorgo del Punitivismo

Il governo Meloni e il ministro Nordio (scavalcato?) non fanno che peggiorare la nevrosi del panpenalismo

Giovanni Fiandaca

Più reati e più pene: un male vecchio e trasversale della politica italiana incapace di vera giustizia. Molto più semplice improvvisare nuove norme penali che guardare alla fonte dei problemi

E’ da non pochi anni che, per stigmatizzare derive espansive della legislazione penale, sono solito – pur da giurista – ricorrere a etichette di matrice psichiatrica: nevrosi repressiva, ossessione punitiva, punitivismo compulsivo et similia. Questa etichettatura in chiave psichiatrizzante evidenzia la incoercibile coazione a ripetere con cui tende ormai a manifestarsi quel fenomeno definito, più tradizionalmente, con termini quali panpenalismo, inflazione o ipertrofia penalistica, nomorrea e altri analoghi. Volendo insistere con le metafore medico-sanitarie, direi che purtroppo l’attuale governo Meloni sembra fare di tutto non solo per non apparire in proposito meno ossessionato rispetto ai governi precedenti, ma per esibire un profilo psico-patologico addirittura aggravato: precisamente, nel segno di una evoluzione peggiorativa verso la schizofrenia, o quantomeno la schizoidia. Com’è intuibile, con questa poco rassicurante etichettatura psichiatrica alludo alla grave scissione o contraddizione – già diagnosticata, peraltro, su queste colonne – tra l’anima ‘teoricamente’ liberalgarantista del Guardasigilli Nordio e l’anima invece accentuatamente forcaiola che ha sinora ispirato la concreta politica penale di questo governo: col consapevole avallo di Nordio, e forse più spesso con la sua passiva tolleranza, sono già circa una decina i provvedimenti normativi (emanati o in preparazione) con cui si aggrava il trattamento sanzionatorio di reati preesistenti o si introducono ennesime figure criminose (ad esempio, in tema di rave party, immigrazione clandestina, violenza agli operatori medici e ai danni del personale scolastico, omicidio nautico, gestazione per altri ecc.). Eppure, appena nel settembre 2022 lo stesso Carlo Nordio non aveva esitato ad affermare: “(…) chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene alla fine non fa altro che ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero: quello penale”.

Di fronte alla palese contraddizione tra il pensiero sopra riportato e le tante innovazioni normative (attuate o progettate) che lo smentiscono è fin troppo facile ironizzare su Nordio che predica bene e razzola male, su Nordio conferenziere tradito da Nordio ministro, su Nordio Guardasigilli per figura scavalcato da chi ha effettivamente il potere di imporre le direttive di politica penale da seguire. Senonché, limitarsi a fare dell’ironia non tocca la vera sostanza della questione, che ha natura sistemica, esibisce un nocciolo duro abbastanza risalente nel tempo e comunque non riguarda soltanto i governi di centrodestra, essendo piuttosto – come dimostra la storia degli ultimi decenni – politicamente trasversale: mi riferisco all’eccessivo spazio politico che la materia penale ha occupato e continua a occupare nel nostro paese, divenendo strumento di consenso elettorale e/o di conflitto partitico, con l’attivo concorso di pressoché tutte le forze in campo (mutando semmai – ma soltanto in parte – il fulcro della preoccupazione repressiva, privilegiando tradizionalmente il centrodestra soprattutto la criminalità comune e il centrosinistra quella dei colletti bianchi), la complicità di buona parte del sistema mediatico e l’ingenuo sostegno della maggioranza dei cittadini. Quale che sia stata la corresponsabilità di alcuni settori della magistratura nell’enfatizzare le implicazioni politiche dell’azione penale, la maggiore responsabilità di questo ruolo soverchiante della giustizia penale è da addebitare al ceto politico complessivo: il quale ha coperto e copre la propria incapacità di affrontare alla radice i mali sociali via via emergenti delegando di fatto al potere giudiziario il compito di trattarli secondo i paradigmi – pur inevitabilmente semplificatori e riduttivi e perciò, spesso, fallimentari in termini di reale prevenzione – delle colpe e dei castighi individuali. E questa delega al giudiziario ha – come sappiamo – riguardato anche, se non soprattutto, i grandi fenomeni criminali tipici del nostro paese, come nel caso emblematico delle mafie. E’ inasprendo sempre più le pene o estendendo i poteri di indagine che l’avremo davvero vinta sulla criminalità mafiosa? Sembrerebbe opinare ancora così pure questo governo, che è intervenuto con un decreto-legge dello scorso 7 agosto in materia di intercettazioni per reati di criminalità organizzata al discutibile scopo di prevenire, con autoritativa decisione politica, i temuti effetti di un’interpretazione giurisprudenziale sgradita (ma effettuando una modifica normativa talmente affrettata, da rischiare di complicare il problema piuttosto che risolverlo nel senso voluto: cfr. il commento tecnico di G.L. Gatta in Sistema penale, 8 agosto 2023). 

Non ho motivo di dubitare che Giorgia Meloni e altri militanti di FdI intendano onorare la memoria in particolare di Paolo Borsellino, assunto a loro simbolo morale, rafforzando l’azione antimafia. Ma, per evitare di percorrere ancora una volta la strada giudiziaria come presunto strumento principale di contrasto delle mafie, suggerirei a questo governo di onorare Borsellino tentando una buona volta di recuperare un’antimafia incarnata nelle realtà da cui il fenomeno mafioso continua a trarre origine: alludo, com’è intuibile, ad un’antimafia declinata in chiave prevalentemente politico-sociale, culturale ed economica, che miri una buona volta a risanare ad esempio i quartieri degradati di città come Napoli o Palermo, in modo da evitare che seguitino a riprodurre giovane manovalanza criminale per mancanza di altre alternative. Certo, per questa antimafia che guarda alla fonte ci vogliono idee, progetti e risorse: molto più semplice improvvisare (e talvolta pasticciare!) nuove norme penali, inasprire norme preesistenti o ampliare i poteri di indagine giudiziaria, passando sempre la palla ai magistrati, non importa se poi così se ne dilata a dismisura il potere di intervento (o di interdizione) e i tribunali finiscono con l’intasarsi ancora di più. 

Nel continuare – nonostante tutto – a difendere l’idea di una giustizia penale restituita a un circoscritto ruolo fisiologico, mi piace richiamare queste parole della filosofa statunitense M. C. Nussbaum: “In realtà io sono incline a pensare che la cosa più razionale sia rifiutare del tutto e per parecchi anni l’uso del termine ‘pena’, visto che restringe la mente, inducendo a pensare che il solo modo di riportarsi al crimine sia qualche ‘guaio’, come dice Bentham, inflitto al reo (…). La pena deve cedere il passo nella nostra attenzione ad altre strategie per la soluzione del problema, e quindi il dibattito dovrebbe in realtà vertere sulle misure che una società può utilizzare ex ante (e in certi casi ex post) per ridurre i reati”. 

Suppongo che Carlo Nordio sottoscriverebbe. Ma, ovviamente, un uomo di cultura liberale alla guida del ministero della Giustizia non è in grado, da solo, di promuovere rivoluzioni copernicane. Non solo perché il maggiore partito di governo è di tradizione giustizialista, ma perché il grande male da curare è – come già detto – trasversalmente diffuso e ha contagiato la mentalità della stessa gente comune: in verità, per ridurre lo spazio del penale nella sfera politica e più in generale nella discussione pubblica, occorrerebbe una rieducazione culturale dell’intera società italiana. Impresa vastissima e assai ardua: chi ha titoli di legittimazione e competenze per tentare di avviarla?

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