l'indagine

"Ipotesi prive di riscontro": il metodo Crisanti bocciato dal tribunale dei ministri

Ermes Antonucci

Archiviate le posizioni del governatore lombardo Attilio Fontana, dell'ex assessore al Welfare Giulio Gallera e altri undici indagati nel procedimento sulla gestione della prima ondata di Covid in Val Seriana

C’è persino una impiegata presso gli uffici amministrativi dell’ospedale di Alzano Lombardo, cioè una persona viva e vegeta, nell’elenco delle vittime per Covid-19 conteggiate dalla procura di Bergamo sulla base della “super consulenza” redatta da Andrea Crisanti. Basterebbe questo per capire quanto l’inchiesta sulla gestione della prima ondata di Covid in Val Seriana sia stata strampalata. Ma in realtà c’è molto altro. “Ipotesi sfornita del ben che minimo riscontro”, “congettura priva di basi scientifiche”, mancanza di “nessi causali”: sono  alcune delle espressioni usate dal tribunale dei ministri di Brescia nell’ordinanza con cui ha archiviato le posizioni di Attilio Fontana e altri 12 indagati.

 

Il governatore lombardo è stato archiviato dalle accuse di epidemia e omicidio colposi, insieme all’ex assessore al Welfare Giulio Gallera e altri undici indagati: Claudio D’Amario, Agostino Miozzo, Silvio Brusaferro, Andrea Urbani, Franco Locatelli, Giuseppe Ippolito, Luigi Cajazzo, Angelo Borrelli, Giuseppe Ruocco, Francesco Paolo Maraglino e Mauro Dioniso. La stessa sorte era toccata, agli inizi di giugno, all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro della Salute Roberto Speranza

 

Come avvenuto in quella occasione, il collegio giudicante ha demolito l’impianto accusatorio della procura di Bergamo, che si basava anche su una consulenza redatta dal microbiologo Andrea Crisanti (oggi senatore del Pd), secondo la quale la tempestiva applicazione della zona rossa avrebbe risparmiato 4.148 decessi (57 dei quali in Val Seriana). “Agli atti manca del tutto la prova che le 57 persone, che sarebbero morte per la mancata estensione della zona rossa, rientrino tra i 4.148 morti in eccesso che non ci sarebbero stati se fosse stata attivata la zona rossa”, scrivono i giudici del tribunale dei ministri, prima di smontare il lavoro svolto da Crisanti: “Il prof. Crisanti ha compiuto uno studio teorico ma non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di persone determinate”. 

 

In altre parole, affermano i giudici, “la contestazione dell’omicidio colposo in relazione alla morte delle persone indicate in imputazione si basa su una mera ipotesi teorica sfornita del ben che minimo riscontro”. “L’ipotesi accusatoria – proseguono  – non è supportata neppure dalla consulenza Crisanti e si riduce a nulla più che a una congettura priva di basi scientifiche”.

 

In una nota a piè di pagina, il tribunale dei ministri si concentra proprio sulla questione dell’assenza del nesso di causa tra la mancata istituzione della zona rossa e il decesso delle 57 persone indicate dalla procura di Bergamo. I giudici evidenziano innanzitutto l’“evidente errore materiale” che ha spinto i pm a inserire una impiegata dell’ospedale di Alzano Lombardo, ancora vivente, tra le vittime riconducibili all’epidemia. Le presunte vittime della mancata zona rossa in Val Seriana sarebbero quindi 56, e non 57.

 

In seguito, i giudici specificano che anche altri nominativi sono stati inseriti per sbaglio nell’elenco delle vittime: una donna è deceduta il 22 febbraio 2020, quindi prima del periodo preso sotto esame dalla procura (26 febbraio-2 marzo); dieci persone, poi decedute, hanno accusato sintomi prima del 26 febbraio 2020; inoltre si deve escludere qualsiasi nesso causale anche per il decesso di altre tre persone, contagiatesi altrove, e di altri cinque soggetti, che non sono mai stati sottoposti ad alcun tampone, e quindi non c’è certezza del contagio dal virus.

 

Ciò che più conta, comunque, concludono i giudici è che “per tutte le 56 vittime è rimasta ignota la catena del contagio: i consulenti nominati dal pubblico ministero hanno potuto soltanto ipotizzare, esaminando la documentazione sanitarie e le denunce dei familiari, che il contagio sia avvenuto o meno in ambiente ospedaliero”.

 

Sull’accusa alla regione Lombardia di non aver applicato il piano pandemico del 2006, l’imputazione cade perché, chi l’aveva scritto “si è espresso in termini drastici circa l’inutilità di quel piano per affrontare la pandemia”. I giudici aggiungono, infine, che “sarebbe irrealistico ipotizzare” che l’epidemia “sia stata cagionata, anche solo a livello nazionale o regionale, da asserite condotte omissive”. Così il metodo Crisanti ha fatto flop. 
 

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