Il cosiddetto “avviso di arresto” è una gran riforma. Ecco perché

Maurizio Crippa

La riforma della procedura sulle norme cautelari è da festeggiare perché concede agli indagati il tempo necessario per chiarire la propria posizione. Ciò che non accadde con Silvio Scaglia, arrestato e detenuto nel 2010 per 363 giorni da innocente

Il 23 febbraio 2010 il gip di Roma ordinò la custodia cautelare per Silvio Scaglia, ormai da tre anni non più manager di Fastweb, con l’accusa di “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale” nell’ambito di un’inchiesta rivelatasi poi uno dei più colossali flop della magistratura inquirente, “Fastweb-Telecom Italia Sparkle”. Scaglia da tempo lavorava all’estero, concordò tramite i suoi legali un interrogatorio e rientrò il 27 febbraio. Nonostante ciò, venne arrestato e detenuto per 363 giorni (tre mesi in carcere più i domiciliari). Eppure non esisteva pericolo di fuga, era tornato spontaneamente, né di manomettere carte non più nella sua disponibilità. Subì una detenzione contro ogni civiltà e giurisprudenza. Che sia stato assolto con formula piena, non serve nemmeno ricordarlo. La vicenda di Scaglia serve però a spiegare quanto sia garantista e di buon senso la riforma di un aspetto della procedura penale che i tagliagole chiamano sprezzanti “avviso di arresto”. E quanto sia invece un obbrobrio del diritto l’invereconda dichiarazione del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, secondo cui “è forte il rischio che si assume l’ordinamento. Se domani dovessero chiamarmi e dirmi che mi devono interrogare perché il pm ha chiesto la cattura, e resto a piede libero sino a quando i tre giudici non decidono, il pericolo che mi dia alla fuga è più reale”. 

 

Scaglia non si era dato alla fuga, e la sparata di Santalucia fa il paio col brocardo vergognoso di Davigo, “non esistano innocenti”, l’abisso del sospetto.  Esistono invece migliaia di innocenti arrestati senza motivo reale, e per reati che non necessitano detenzione. “Guardia di Finanza, apra subito. Cinque del mattino. La voce dal citofono mi scuote mentre sono ancora immerso nello spaesamento del dormiveglia”. Inizia così un altro drammatico racconto, quello di Mario Rossetti, altro manager Fastweb, che fu arrestato all’alba e anche in questo caso senza nessun motivo di gravità, urgenza e necessità. Quattro mesi di carcere, prima della ovvia assoluzione dopo anni di processo. Ne ha scritto nel libro “Io non avevo l’avvocato”. Ma avere l’avvocato o meno, nell’Italia dei soprusi procedurali, non fa poi differenza.

 

E’ per questo che tra le norme della riforma della Giustizia del ministro Carlo Nordio ce n’è una di palmare validità: quella che obbliga il gip a procedere all’interrogatorio dell’indagato, prima di decidere sulla richiesta di misura cautelare del pm, notificando l’invito a comparire “almeno cinque giorni prima”. Nelle “modifiche in tema di misure cautelari: a) estensione del contraddittorio preventivo” si legge: “Si introduce il principio del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui, nel corso delle indagini preliminari, non risulti necessario che il provvedimento cautelare sia adottato ‘a sorpresa’. In tal modo, quindi, ove consentito dalle concrete circostanze, si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva”.

 

Questa perfino banale norma garantista è ovviamente riservata ai casi che escludano gravità e urgenza e in tutti i casi in cui “l’intervento cautelare si appalesi indifferibile”. E’ valida insomma solo per i reati amministrativi o di ambito economico che i manettari chiamano “dei colletti bianchi” e che invece, trattandosi di reati di carte, nella maggior parte dei casi richiedono il tempo necessario al comune cittadino per produrle. Santalucia dovrebbe avere la decenza di spiegare per quale motivo il pericolo di fuga sarebbe “più reale”.

 

C’è anche un’altra norma, prevede che sulle richieste di custodia in carcere sia un collegio di tre giudici a decidere, non più uno solo. Non c’è bisogno di ricordare i (ne)fasti di Italo Ghitti per spiegare  il valore di una simile norma. Chiunque riconosca la necessità di una giustizia più funzionale e meno soggetta all’arbitrio non può che rallegrarsi per tali riforme, che provano a mettere gli indagati (presunti innocenti) al riparo anche della arbitrarietà dell’applicazione delle norme di procedura. I casi sono migliaia, ma nell’imminenza del trentennale si è tornati a parlare in questi giorni di uno che ha segnato tragicamente la storia italiana, il suicidio di Raul Gardini, 23 luglio 1993.

 

Gardini aveva saputo dal 16 luglio che esisteva un mandato di arresto per l’inchiesta Enimont. Aveva chiesto più volte di essere ascoltato, evitando se possibile (come avvenne per altri manager), un arresto non motivato. Che era però la prassi abusiva su cui si confezionò Mani pulite. La convocazione non avvenne, lo lasciarono crogiolare. “In più occasioni Di Pietro racconterà che la mancanza di tempestività nell’arrestare Gardini è stato uno dei grandi errori della sua vita”. Per chi volesse rinfrescare la memoria, la vicenda è ben riassunta da Filippo Facci in La guerra dei trent’anni. “Ma voleva arrestarlo o no?”, gli chiese anni dopo un cronista del Corriere. “Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità”. Possono davvero la giustizia e le garanzie dipendere da queste oscillazioni di gusto dell’inquisitore? La riforma della procedura sulle norme cautelari è da festeggiare

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"