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l'analisi

Le domande che è lecito porsi sul carcere, e quello che c'è da salvare

Giovanni Fiandaca

Auspicare una verifica pubblica del 41-bis non equivale a fare un inchino ai mafiosi, a cedere alle loro illecite pressioni. Fermezza, diritti e regimi speciali. Verità non convenzionali sul caso Cospito

Come è già stato rilevato, sono almeno tre le questioni problematiche connesse al prolungato sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito, riguardanti rispettivamente: 1) la tutela della sua vita e della sua salute; 2) la legittimità dell’applicazione nei suoi confronti del regime detentivo speciale (cosiddetto carcere duro) di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario; 3) la persistente necessità di mantenere in vita l’attuale 41-bis come dispositivo di portata generale. 

 

Dopo il trasferimento di Cospito dal carcere di Sassari a quello di Milano-Opera, ben più attrezzato quanto a presidi sanitari, il problema della tutela della sua salute risulta in parte ridimensionato (incombe certo il rischio concreto di un progressivo peggioramento delle condizioni di salute a causa del protrarsi del digiuno, potenzialmente contrastabile con un ricovero in una struttura ospedaliera esterna, pur rimanendo problematico un eventuale ricorso a strumenti di alimentazione forzata avendo l’anarchico già manifestato in proposito una anticipata volontà contraria). 

 

Quanto alla questione sub 2), il discorso è complesso in punto sia di fatto che di diritto, per cui sarebbe illusorio pensare di poter prospettare risposte assolutamente certe e univoche nel senso della legittimità o illegittimità del decreto col quale la ex ministra della Giustizia Cartabia ha – nel maggio 2022 – sottoposto Cospito al regime speciale di detenzione. Rispetto alle motivazioni di una tale decisione (una ampia sintesi è al riguardo contenuta nell’articolo di S. Feltri apparso in Domani 3 febbraio 2023, col titolo Ideologo più che capo, cosa c’è dietro al 41 a Cospito), va in via preliminare richiamata la finalità specifica del carcere duro così come precipuamente individuata rispetto ai mafiosi (o terroristi) di spiccata pericolosità: impedire che soggetti rivestenti un ruolo apicale o comunque elevato nelle organizzazioni criminali di appartenenza possano pur da reclusi, eludendo la sorveglianza imposta dallo stato detentivo, riuscire a comunicare con l’esterno e a mantenere così una posizione che li pone in condizione di impartire ordini criminosi e direttive di azione agli altri associati in libertà.

 

Ciò premesso, l’interrogativo è questo: il ruolo impersonato da Cospito all’interno della galassia anarchica è davvero paragonabile a quello di membro direttivo di un’associazione criminale, che dispone di una struttura organizzativa simile a quella delle associazioni terroristiche o mafiose in senso stretto? In effetti, per rispondere a questa domanda sarebbe necessaria una sottile e sofisticata ‘ermeneutica del fatto’ (preliminare rispetto alla ‘ermeneutica del diritto’, anche se i due versanti ermeneutici finiscono con l’intersecarsi), volta a verificare se i processi già celebrati con le relative sentenze, le indagini giudiziarie concluse o ancora in corso, i pareri delle procure competenti e della procura nazionale antimafia e antiterrorismo, nonché le informative di polizia sulle condotte materiali e le prese di posizione ideologiche di Cospito fornissero una piattaforma cognitiva sufficiente a giustificare la conclusione che Cospito non fosse soltanto o soprattutto un ideologo incline a lanciare messaggi incendiari genericamente pericolosi per la sicurezza pubblica (suscettibili di essere poi recepiti e tradotti in azioni violente da anarchici agenti a titolo pur sempre individuale, o comunque al di fuori di ogni vincolo organizzativo di sottoposizione gerarchica a un capo), bensì anche un soggetto posto al vertice direttivo e organizzativo di gruppi criminali suscettibili di essere qualificati associazioni terroristiche in senso proprio, in quanto dotate di un minimo di struttura organizzativa e operanti secondo indicazioni e direttive provenienti dall’alto.

 

Non potendo essere questa la sede più adatta a svolgere una rilettura approfondita e dettagliata della eterogenea messe di documenti contenenti le basi cognitive del decreto ministeriale, né delle motivazioni con le quali il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo della difesa che contestava la legittimità del 41-bis, direi forse con eccessiva sintesi questo: cioè che i molteplici, complessi e pur ambivalenti dati disponibili facevano apparire quantomeno plausibile la decisione politico-amministrativa di applicare a Cospito il regime del carcere duro. Ma non c’erano modalità d’intervento meno drastiche, cioè forme di sorveglianza pur sempre rigorosa ma meno incisiva, potenzialmente adottabili nell’ambito di un adeguato circuito di cosiddetta alta sicurezza (cosa diversa, nell’attuale assetto organizzativo delle nostre carceri, dal 41-bis) per impedire a Cospito di comunicare con l’esterno? Difficile rispondere in termini di certezza anche a questa domanda.

 

Forse, a giudicare con il senno di poi – considerando le numerose manifestazioni e reazioni anche a carattere violento seguite alla clamorosa contestazione del 41-bis inscenata da Cospito col digiuno a oltranza, e considerando anche da un lato i successivi tentativi di strumentalizzazione di tale scelta contestatrice da parte di alcuni mafiosi al 41-bis e dall’altro il gioco politico sporco attuato con comportamenti istituzionali gravemente scorretti dagli esponenti politici meloniani Delmastro e Donzelli (inclusa l’assurda accusa di essersi “inchinati ai boss” rivolta ai parlamentari del Pd che erano andati in visita al carcere di Sassari per verificare lo stato di salute dell’anarchico digiunante) – ricercare strade diverse dal carcere duro per fronteggiare il rischio che Cospito diffondesse fuori dalla prigione messaggi pericolosi sarebbe stata opzione più saggia. 

 

Rimane la terza questione di fondo, che è quella più impegnativa e che – non a caso – non è facile, a tutt’oggi, affrontare nello scenario pubblico in maniera razionalmente argomentata e approfondita. A complicare la discussione, e a renderla simile a una sorta di guerra di religione, concorre una molteplicità di fattori in diversa misura interagenti. Esercitano un peso non secondario nell’inasprire e accentuare l’aggressività emotiva del dibattito le immediate reazioni allarmate degli ampi settori di pregiudiziale vocazione giustizialista rispettivamente presenti invero in entrambi gli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra. Questi fronti giustizialisti, politicamente trasversali, reagiscono in piena sintonia con le ali più radicali e combattive dell’antimafia giudiziaria e mediatica, i cui esponenti per accreditare la legittimità e intangibilità del carcere duro ricorrono persino a un argomento simil-sacrale, e cioè affermano che il 41-bis non si può porre in discussione perché ciò equivarrebbe a ignorare che esso è nato dal sangue di Falcone e Borsellino e, perciò, a svilirne il sacrificio e disprezzarne la memoria. Ma, a prescindere da simili (più che discutibili) approcci tabuistici, è noto come le procure antimafia e i fronti politico-sociali a loro collaterali tendano a desumere la legittimità costituzionale del regime di massima sicurezza dalla sua ritenuta utilità quale strumento irrinunciabile di neutralizzazione della spiccata pericolosità specie di quei soggetti che occupano nelle organizzazioni criminali una posizione di rango elevato. 

 

La funzionalità in chiave utilitaristica di un istituto può, in un ordinamento giuridico come il nostro, essere assunta a esclusivo o prevalente criterio della sua legittimità costituzionale? Che lo pensino per lo più i magistrati d’accusa, e in particolare quelli più direttamente impegnati nel contrasto della criminalità organizzata (insieme con gli esponenti dell’antimafia politico-sociale e mediatica collaterale alle procure), non sorprende troppo: ognuno fa il suo mestiere, e in quest’ottica latamente professionale non stupisce che l’intera Costituzione rischi di essere letta secondo una specifica ottica totalizzante, cioè pressoché tutta sub specie antimafiae.

 

Senonché è forse superfluo rilevare che l’antimafia politico-sociale-giudiziario-mediatica di orientamento più radicalmente combattente-punitivista non può - al di là della sua buona fede e di alcune possibili buone ragioni - pretendere di stabilire la maniera più corretta di interpretare i principi costituzionali in materia penale. Non solo il modo di concepire e applicare il diritto in generale, ma la stessa interpretazione e applicazione della Costituzione non può che essere – a maggior ragione nella realtà contemporanea - una impresa collettiva aperta al contributo legittimo, doveroso e concorrente di una pluralità di attori, dai politici ai cittadini comuni, dai magistrati ai diversi livelli giurisdizionali e dagli avvocati ai giuristi di matrice universitaria; e in questo contesto pluralistico di voci concorrenti, neppure alla Corte costituzionale può essere riconosciuto il potere di dire l’ultima parola una volta per tutte, essendo anche le scelte interpretative della Consulta suscettibili di valutazione critica da parte degli altri co-pratogonisti del processo ermeneutico e, in quanto passibili di progressivo affinamento, modificabili nei percorsi evolutivi della sua giurisprudenza. 

 

In un simile orizzonte pluralistico e articolato, stupirà allora fino a un certo punto constatare come non vi sia affatto concordia di vedute neppure su che cosa in effetti sia il 41-bis dal punto di vista della sua natura giuridica: infatti, il carcere duro è stato e continua a essere rispettivamente qualificato – a seconda delle opinioni finora emerse nello scenario dottrinale e giurisprudenziale – una mera modalità di esecuzione della pena detentiva, una misura di prevenzione, una misura di sicurezza, o ancora una misura a carattere pur sempre sanzionatorio per la  componente di supplementare afflittività connessa alla forte compromissione dei diritti della persona reclusa, e persino una pena accessoria. Un lettore profano potrebbe rinvenire in questa proliferazione di punti di vista una riprova di quell’eccesso di concettualismo astratto e formalistico che ha ad esempio indotto Goethe, nella scia di Lutero e altri celebri predecessori, a etichettare i giuristi “cattivi cristi”. È anche vero d’altra parte che la fisionomia complessiva del 41-bis sfugge a un inquadramento categoriale preciso, ed è proprio la sua ambigua polivalenza di strumento al tempo stesso preventivo e fortemente repressivo a conferire all’istituto un carattere ibrido, non privo di rilevanti effetti ulteriormente sanzionatori poco giustificabili alla stregua del duplice principio di umanità delle pene e rieducazione sanciti dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione.

 

Né il salvataggio dell’istituto finora operato dalla nostra Corte costituzionale e dalla Corte europea di Strasburgo può di per sé fugare tutti i ragionevoli dubbi di incostituzionalità, apparendo abbastanza verosimile che la rinuncia a invalidarlo sia soprattutto spiegabile in base alla preoccupazione, improntata a realismo e opportunità politica più che a scrupolosa fedeltà al costituzionalismo nazionale ed europeo, di mantenere in vita uno strumento di prevenzione-repressione antimafia considerato necessario nel contesto italiano dalle forze politiche maggioritarie e dalla magistratura prevalente. Ma che la compatibilità del 41-bis con la Costituzione risulti in ogni caso alquanto problematica è confermato dalla lettura della stessa giurisprudenza costituzionale in materia, che ha più volte affermato e ribadito che il regime detentivo speciale soggiace a limiti invalicabili posti a protezione di diritti, valori ed esigenze che vanno costituzionalmente bilanciati con la tutela della sicurezza collettiva e con gli obiettivi perseguiti con l’azione di contrasto della criminalità organizzata; e, comunque, la Consulta non manca di sottolineare la necessità di non violare il divieto costituzionale di trattamenti inumani e, altresì, di non vanificare completamente il fine rieducativo della pena.

 

Quanto i suddetti limiti e paletti risultano effettivamente rispettati nella attuale gestione concreta del carcere duro? Interrogativo difficile e imbarazzante, come accade in tutti i casi in cui si tratta di verificare il livello di corrispondenza tra le enunciazioni teoriche e la prassi. Senza contare che lo stesso principio di umanità della pena tollera interpretazioni più strette o più late, in quanto è influenzata anche dalla sensibilità individuale la valutazione se una determinata limitazione apportata a un diritto formalmente riconosciuto dall’ordinamento penitenziario sia o meno conforme al principio umanitario. Vale in proposito il criterio quantitativo-statistico facente leva su una (presunta più che scientificamente accertata) sensibilità sociale maggioritaria, o soccorre un criterio di giudizio a carattere qualitativo-assiologico? Se domande come queste ammettono più di una risposta, una cosa invece considero più certa anche in base alla mia esperienza (diretta e indiretta) di garante regionale dei detenuti: non solo nelle attuali sezioni di carcere duro, ma anche nella stragrande maggioranza dei circuiti penitenziari di cosiddetta alta sicurezza in realtà nulla o assai poco si fa, sul piano trattamentale, in vista del fondamentale obiettivo – che una Carta costituzionale come la nostra idealmente persegue rispetto a tutte le tipologie di rei, nessuna esclusa – di promuovere la rieducazione (comunque la si voglia intendere) dei condannati per reati di criminalità mafiosa: essendo assolutamente predominante la preoccupazione di garantire la sicurezza esterna, l’istanza rieducativa continua tutt’al più a essere evocata in maniera ipocrita e retorica, mentre nei fatti più che secondaria diventa irrealistica (cfr. il recente volume di A. Menghini, Carcere e Costituzione, Editoriale Scientifica, 2022, 394 ss.; sulla spinosa questione della rieducatività dei mafiosi si veda anche il dibattito a più voci intitolato Che cosa significa rieducare soggetti appartenenti alla criminalità organizzata? e pubblicato in Ristretti orizzonti, n. 3/2022). 

 

Sulla base delle considerazioni che precedono, può apparire frutto di pregiudizio ideologico o di superficialità ed emotività di giudizio, come pure di interessata difesa di bacini elettorali, ruoli professionali o consolidati assetti burocratico-corporativi interni all’amministrazione penitenziaria, rivendicare oggi con certezza la necessità di mantenere il 41-bis così com’è sia nella disciplina normativa, sia nella prassi applicativa. La stessa vicenda Cospito, piuttosto che fungere da ulteriore pretesto per ennesime polemiche e contrapposizioni politiche strumentali, avrebbe potuto in teoria innescare quantomeno l’inizio di un confronto pubblico volto a verificare seriamente –  senza dogmi preconcetti e senza sospettosa animosità -  la sopravvivenza delle ragioni sia giuridiche sia criminologiche che hanno giustificato il modello di carcere duro adottato (non senza progressive correzioni e delimitazioni specie ad opera dei giudici costituzionali) nell’ultimo trentennio.

 

Nulla in verità rimane nel corso degli anni uguale a se stesso, e ciò vale pure per le mafie come per le antimafie (anche l’antimafia, come sappiamo, si manifesta in versioni diverse, ora più radicali ora più moderate). Da questo punto di vista, all’esigenza di una verifica, di un collaudo o messa a punto non si sottrae neppure il 41-bis, che andrebbe riconsiderato tanto nei suoi presupposti criminologici alla stregua di conoscenze empiriche aggiornate, quanto nelle sue condizioni di legittimità sotto il profilo giuridico-costituzionale

 

Concludendo, tenderei a considerare valida anche rispetto al regime detentivo speciale la tesi sostenuta più in generale dal grande giusfilosofo primo-novecentesco Gustav Radbruch, secondo il quale un’entità complessa come il diritto si basa su tre valori fondamentali, che dovrebbero costituire oggetto di un equilibrato bilanciamento: utilità, giustizia e certezza. Riferendo questi tre valori al nostro tema, ne consegue che il 41-bis andrebbe auspicabilmente rivisitato per verificarne oggi il grado di corrispondenza a una sua persistente utilità pragmatica, non disgiunta però da una sua giustizia da intendere (più che in termini vetero-retributivi) come adeguato rispetto dei diritti e delle garanzie individuali che vanno riconosciuti agli stessi capi di organizzazioni criminali e, infine, a una certezza da concepire  come puntuale predeterminazione dei suoi presupposti applicativi. 

Auspicare una verifica pubblica del carcere duro, sotto il triplice aspetto di cui sopra, equivale a fare un inchino ai mafiosi, a cedere alle loro illecite pressioni o ad assecondare nuove, ipotetiche e oscure trattative stato-mafia? 

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