giustizia

Processo Eni-Nigeria, la procura generale rinuncia all'appello: assoluzioni definitive

Ermes Antonucci

La procuratrice generale Gravina non impugna la sentenza di assoluzione di primo grado sulla presunta maxi corruzione internazionale: “Nessuna prova. I motivi d’appello sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità"

I motivi d’appello “sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”. “Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo. Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione, che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale e di durata ragionevole”. Con queste parole durissime, il sostituto procuratore generale di Milano Celestina Gravina ha motivato davanti alla Corte d’appello milanese la decisione di rinunciare all’impugnazione proposta dalla procura, in particolare dall’aggiunto Fabio De Pasquale, nei confronti della sentenza con cui il tribunale ha assolto tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria.

 

Il sostituto procuratore generale è stato un fiume in piena. Nel suo intervento, Gravina ha demolito con affermazioni nette il lavoro portato avanti dai pm milanesi (De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, sotto il coordinamento dell’allora capo Francesco Greco), parlando di “mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa”, un ricorso che non ha la forza “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre il ragionevole dubbio”, profili “incongrui e insufficienti” che restituiscono “diverse ricostruzioni possibili che sono lo specchio dell’assenza di fatti certi posti alla base della accusa e non di un accordo corruttivo che non si indica in alcun modo”. Il pg Gravina ha poi parlato di “vicende buttate lì come una insinuazione”, della “esilità e assoluta insignificanza degli elementi” portati dalla procura milanese per sostenere l’accusa di corruzione internazionale, ma anche di “colonialismo della morale” da parte “del pm”. “In questo processo – ha spiegato il magistrato – non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive".

 

Un atteggiamento “neocolonialista”, secondo il pg, lo ha avuto “il pm” perché, come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto”, ha “imposto” la propria linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti”. Atteggiamento neocolonialista “di cui sono state accusate le due società”, che invece “hanno fatto la ricchezza della Nigeria” anche con “tributi di sangue”. “Il pm – ha detto ancora il pg Gravina – ha una idea vaga e per questo ha chiesto la confisca” di oltre un miliardo di dollari, ossia l’importo complessivo versato dalle due società per acquisire i diritti di esplorazione sul giacimento petrolifero Opl245. E ciò perché “non riesce ad individuare” le presunte tangenti versate e “ripara sul fatto che questa operazione non doveva farsi”. Il pm, secondo Gravina, ha portato solo “chiacchiere e opinioni generiche che toccano i governanti degli ultimi dieci anni in Nigeria”.

 

Il pg Gravina è lo stesso che nel processo d’appello ai presunti intermediari della corruzione internazionale aveva chiesto e ottenuto le assoluzioni degli imputati, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, esprimendo una serie di pesanti critiche sull’operato dei colleghi. Durante la requisitoria il pg aveva parlato di “travisamento dei fatti gravissimo” per via di una lettura “distorta” degli atti, di “mancanza di prove” e aveva osservato che in primo grado su alcuni temi era stata seguita l’impostazione dei pm De Pasquale e Spadaro, fondata su teoremi “non dimostrati”, che si limitavano a riflettere le denunce delle ong. “Non esiste il fatto contestato, non esiste in natura”, aveva spiegato Gravina, spingendosi addirittura a definire l’inchiesta “un enorme spreco di risorse”.

 

Proprio la sentenza di assoluzione dei presunti intermediari della corruzione, poi passata in giudicato, ha consolidato la scelta della procura generale di rinunciare all’impugnazione della sentenza assolutoria del filone principale. Richiamandosi all’esercizio della sua “funzione di vigilanza sulla osservanza della legge”, Gravina ieri ha infatti ribadito più volte il tema della “sentenza passata in giudicato nel processo per lo stesso fatto”, cioè quella sui due presunti mediatori assolti. Nella “impostazione erronea del pm” Obi continua a essere il “principale collettore di questa tangente per conto dei dirigenti Eni”, eppure, ha aggiunto Gravina, c’è una sentenza definitiva, che stabilisce che i due mediatori non sono mai stati collettori “di una tangente destinata” ai pubblici ufficiali nigeriani, “e il pm di questo non se ne accorge”. “Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto – ha affermato Gravina – e questa è una violazione delle regole di giudizio”. Anche la Corte inglese, ha spiegato ancora Gravina, è andata contro la tesi del pm – riferendosi alla sentenza con cui l’Alta corte inglese specializzata in controversie commerciali internazionali ha accertato la legittimità dell’attività di intermediazione svolta da Obi, ritenuta invece fittizia dai magistrati italiani – mentre la procura ha pensato di essere una sorta di “Tribunale amministrativo della Nigeria”. 

 

Il sostituto procuratore generale di Milano ha anche parlato delle “bugie” di Vincenzo Armanna, l’ex manager licenziato da Eni e grande accusatore della compagnia petrolifera. Il pg ha ricordato “le bugie di Armanna ripetute”, i “suoi ripensamenti” e le “sue speranze frustrate di impunità”. Proprio le dichiarazioni di Armanna furono particolarmente valorizzate dalla procura di Milano nel processo di primo grado, e la sua gestione, così come quella dell’avvocato Piero Amara, è poi finita al centro dello scontro esploso all’interno della procura milanese, che ha sconvolto la magistratura italiana  (i vertici della procura indagati, il caso Storari-Davigo, l’inchiesta sulla fantomatica “loggia Ungheria”).

 

C’è in Italia, ha affermato il pg, il “diritto delle persone a non subire processi penali quando non vi sono motivi perché si tengano, e questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento”.