L'avvocato Roberto Pisano, legale di Obi Emeka. ANSA / Matteo Corner 

Non era corruzione

Flop definitivo del processo del secolo. Assolti i “mediatori” Eni

Ermes Antonucci

Ennesima assoluzione, questa volta per Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, ed ennesimo fallimento per la procura di Milano nel processo contro Eni e Shell, accusate di corruzione internazionale

È diventata definitiva la sentenza di assoluzione nei confronti di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i due presunti mediatori della corruzione internazionale che, secondo i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, Eni avrebbe compiuto in Nigeria nel 2011 per l’acquisto dei diritti di esplorazione del giacimento petrolifero Opl 245. La notizia, pubblicata mercoledì dal Corriere della Sera in un brevissimo trafiletto, ha in realtà risvolti di eccezionale importanza. Con il passaggio in giudicato dell’assoluzione di Obi e Di Nardo, infatti, si conclude definitivamente, e in modo fallimentare per la procura di Milano, uno dei due filoni del “processo del secolo” contro Eni e Shell, accusati di aver pagato una tangente da un miliardo di dollari in Nigeria.

L’inchiesta voluta dalla procura milanese sulla presunta corruzione più grande della storia si sta trasformando in uno dei più grandi flop della storia giudiziaria del nostro paese, soprattutto se si considera che lo scorso marzo il tribunale di Milano ha assolto tutti i quindici imputati del filone principale del processo, tra cui l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, bocciando clamorosamente l’impianto accusatorio avanzato dai pm De Pasquale e Spadaro (che per Descalzi e Scaroni avevano chiesto condanne a otto anni di reclusione). Nonostante la figuraccia, i pm hanno deciso di impugnare la sentenza di primo grado. Tuttavia, anche la procura generale di Milano, che porterà avanti l’accusa in appello, sembra ritenere inconsistente la maxi inchiesta dei colleghi.

Nel filone abbreviato era stata infatti la stessa sostituta procuratrice generale, Celestina Gravina, a chiedere e a ottenere l’assoluzione in appello di Obi e Di Nardo (in precedenza condannati in primo grado a quattro anni), esprimendo una serie di pesanti critiche sull’operato dei colleghi. Durante la requisitoria la pg aveva parlato di “travisamento dei fatti” per via di una lettura “errata” degli atti, di “mancanza di prove” e aveva osservato che in primo grado su alcuni temi era stata seguita l’impostazione dei pm De Pasquale e Spadaro, fondata su teoremi “non dimostrati”. “Non esiste il fatto contestato, non esiste in natura”, aveva spiegato Gravina, sottolineando l’inattendibilità del testimone valorizzato dai pm, Vincenzo Armanna, definito “un avvelenatore di pozzi bugiardo”. Di fronte all’assoluta infondatezza delle accuse, la pg si era spinta addirittura a definire l’inchiesta “un enorme spreco di risorse”. Valutazioni condivise dai giudici e ora ribadite dalla procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, che con il suo no alla richiesta di ricorso in Cassazione avanzata dai legali della Nigeria ha fatto diventare definitiva l’assoluzione per Obi e Di Nardo. “Non si può dubitare che i manager Eni, così come gli intermediari, siano estranei alla condotta tipica del reato di corruzione”, ha affermato la procura generale, smontando per l’ennesima volta il teorema elaborato dai colleghi. Anche il filone principale del “processo del secolo” sembra ora destinato a crollare definitivamente nei successivi gradi di giudizio, dopo la bocciatura già arrivata in primo grado.

Nel frattempo, le macerie hanno cominciato a travolgere la procura di Milano. Il flop del processo Eni, unito alla vicenda dei verbali di Amara sulla fantomatica “loggia Ungheria”, ha fatto emergere una guerra intestina senza precedenti in quello che fu il fortino di Mani pulite. Per la vicenda Amara, il capo della procura Francesco Greco (in pensione tra pochi giorni) si è ritrovato indagato dalla procura di Brescia per omissione di atti d’ufficio, insieme all’aggiunto Paola Pedio. Il sostituto Paolo Storari è invece accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver consegnato i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm, ed ex pm simbolo della procura milanese, Piercamillo Davigo, a sua volta indagato per la stessa ipotesi di reato. Per la gestione del processo Eni, invece, i pm De Pasquale e Spadaro sono indagati a Brescia con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio.

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