ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Altre due assoluzioni smontano il “processo del secolo” contro Eni

Ermes Antonucci

Mancanza di prove, ma anche decisioni "irrituali e incomprensibili" degli stessi inquirenti. Così l'intero impianto accusatorio dei pm De Pasquale e Spadaro è stato spazzato via

Non è rimasto praticamente nulla del “processo del secolo” voluto dalla procura di Milano sulla presunta tangente da un miliardo di dollari pagata da Eni e Shell per l’acquisto dei diritti di esplorazione del giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria. La Corte d’appello di Milano ha infatti assolto Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, i due presunti mediatori della corruzione internazionale, annullando così la condanna a quattro anni inflitta a quest’ultimi nel settembre 2018 in primo grado con rito abbreviato. Emeka e Di Nardo sono stati assolti dai giudici perché “il fatto non sussiste”, la stessa formula utilizzata dal tribunale di Milano nella sentenza con cui lo scorso marzo ha assolto tutti i quindici imputati del filone principale del processo (tra cui l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni), bocciando clamorosamente l’impianto accusatorio avanzato dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, il cui fallimento ora è completo.

 

Nel procedimento abbreviato era stata la stessa rappresentante dell’accusa in appello, la sostituta procuratrice generale Celestina Gravina, a chiedere l’assoluzione degli imputati, esprimendo una serie di pesanti critiche sull’operato dei colleghi. Durante la requisitoria la pg aveva parlato di “travisamento dei fatti” per via di una lettura “errata” degli atti, di “mancanza di prove” e aveva osservato che in primo grado su alcuni temi era stata seguita l’impostazione dei pm De Pasquale e Spadaro, fondata su teoremi “non dimostrati”. “Non esiste il fatto contestato, non esiste in natura”, aveva spiegato Gravina, sottolineando l’inattendibilità del testimone valorizzato dai pm, Vincenzo Armanna, definito “un avvelenatore di pozzi bugiardo”. Di fronte all’assoluta infondatezza delle accuse, la pg si era spinta addirittura a definire l’inchiesta “un enorme spreco di risorse”.

 

Valutazioni durissime, simili a quelle avanzate dai giudici del tribunale nelle motivazioni della sentenza di assoluzione nei confronti degli imputati del troncone principale del processo. Nella sentenza, infatti, il collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada sottolinea la mancanza di prove a sostegno delle accuse, ma anche alcune decisioni “irrituali” e “incomprensibili” degli stessi inquirenti, come il mancato deposito di una videoregistrazione (riguardante Armanna) favorevole agli imputati e la richiesta di ascoltare in aula Piero Amara affinché questi riferisse su presunte interferenze da parte dei legali di Eni nei confronti dello stesso collegio giudicante.

 

Proprio attorno a queste circostanze è venuto a emergere uno scontro senza precedenti all’interno della procura di Milano. De Pasquale e Spadaro, titolari dell’inchiesta Eni, sono ora indagati dalla procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio, per aver omesso di depositare tra gli atti del processo documenti che sarebbero stati elementi di prova favorevoli agli imputati. L’attenzione dei pm di Brescia è rivolta, in particolare, alla decisione degli inquirenti milanesi di non depositare la videoregistrazione che mostrava l’intento ricattatorio di Armanna nei confronti dei dirigenti Eni, né alcune chat dalle quali emergevano le prove di un versamento di 50 mila dollari da parte di Armanna in favore di un testimone. Ascoltato dai pm bresciani, il sostituto procuratore Paolo Storari (indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per la consegna a Davigo dei verbali di Amara sulla presunta loggia Ungheria) avrebbe accusato i vertici e i colleghi della procura milanese di non aver preso in considerazione le prove da lui raccolte circa l’inattendibilità di Armanna e di aver ritardato l’apertura di un’indagine sulle rivelazioni di Amara, così da non compromettere il proseguimento del processo contro Eni. Insomma, bocciato in sede giudiziaria, il processo Eni-Nigeria si sta trasformando in un processo sulla magistratura milanese, dai risvolti imprevedibili.

 

 

Di più su questi argomenti: