Piero Amara a fine maggio in tv: parlava della loggia Ungheria a Piazzapulita (foto LaPresse) 

La madre di tutte le macchine del fango

Annalisa Chirico

Con l’assoluzione degli imputati nel caso Eni-Nigeria e con i mascariatori in carcere è caduto il mito della procura di Milano e della stampa da riporto. I peccati del circo mediatico-giudiziario spiegati con il caso Amara. Inchiesta

Depistatori trasformati in testimoni, impostori riveriti e santificati come collaboratori di giustizia, calunniatori assurti a esegeti della politica industriale nazionale. In pochi si sono interrogati sul ruolo dei mass media nella costruzione della folgorante carriera dei novelli Ciancimino le cui dichiarazioni, per mesi e anni, hanno alimentato la macchina del fango contro i vertici di Eni, con Claudio Descalzi in testa, fino a una valanga accusatoria che ha gettato discredito su magistrati, professori e manager, uniti dalla comune appartenenza alla mitologica “Loggia Ungheria”. Di Piero Amara si sono fidati certi magistrati, sbagliando. Di Piero Amara si sono fidati orde di cronisti desiderosi di farsi ingranaggio mediatico del circo che doveva ribaltare il top management di Eni, accelerare fuoriuscite e nuovi ingressi. Pure costoro hanno sbagliato. Per fortuna, la storia è andata diversamente, i mascariatori sono finiti sul banco degli imputati, anzi in cella. Negli scorsi mesi e anni nessuna delle firme blasonate di stanza in via Freguglia, insomma di quelli che vantano familiarità con il rito ambrosiano, ha osato sollevare il minimo dubbio sulla attendibilità del teste che con le sue dichiarazioni sembrava perseguire un unico obiettivo: ledere la reputazione di Eni e della sua tolda di comando.

 

Secondo il copione del pentitismo più meschino, avvelenatore di pozzi e occultatore di fatti, le parole di Piero Amara sono state accolte come oro colato da certi pm alla ricerca esclusiva di conferme alle proprie teorie accusatorie, in sostanza disinteressati ai riscontri fattuali rispetto alle gravi accuse lanciate contro persone in carne e ossa. Con l’assoluzione, lo scorso 17 marzo, di Descalzi, Paolo Scaroni e degli altri imputati nel caso Eni-Nigeria perché il fatto non sussiste, si eclissa la stella di Piero Amara, e insieme a lui cade il mito della procura di Milano e dei suoi giornalisti da riporto. Nonostante i tentativi “riduzionisti” del procuratore capo Francesco Greco (“i pm hanno lavorato nonostante le intimidazioni”), gli ultimi sviluppi suscitano diversi interrogativi sugli equilibri e le dinamiche interne alla procura. Quello contro Eni voleva essere un processo o una caccia alle streghe? Abbiamo assistito al legittimo esercizio dell’azione penale o qualcuno mirava piuttosto a una esecuzione nella pubblica piazza?

  

In pochi sanno che l’anno scorso è esistito un altro canale di uscita dalla procura di Milano dei verbali segretati del controverso testimone, oggi indagato, Piero Amara. Questa falla ha avuto come terminale proprio un amico di Amara, il suo sparring partner nell’operazione volta a demolire i vertici Eni: il coindagato e altrettanto controverso dichiarante, pure lui valorizzato dai pm del processo Eni-Nigeria, Vincenzo Armanna. Come racconta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, a febbraio 2020 l’ex manager Eni Armanna mostra al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari almeno uno dei verbali segretati di Amara: dunque fuoriuscito da un canale diverso e indipendente dalla spedizione anonima ad alcuni giornali effettuata dall’assistente dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo a partire dall’ottobre 2020 dopo che quei verbali originali, in word e senza firma, a Davigo erano stati consegnati nell’aprile 2020 da Storari.

 

Armanna è sempre stato un enigma sia nel processo dove era coimputato di corruzione internazionale per le contestate tangenti Eni in Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati da parte del collegio composto dai giudici Tremolada-Gallina-Carboni), sia nell’inchiesta parallela in corso da quattro anni sul “complotto”, cioè sui tentativi di depistaggio giudiziario attribuiti ai vertici Eni. Il “volubile” Armanna prima rende dichiarazioni accusanti l’ad Descalzi, poi le ritratta accusando i pm di accordi con il suo avvocato, poi ritratta la ritrattazione spiegando di averla recitata su mandato Eni. La procura, nonostante la condotta altalenante, per usare un eufemismo, di un teste che cambia versione come il colore della cravatta, non ha mai smesso di ritenerlo attendibile, financo nella requisitoria finale pronunciata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale (che su Eni indaga dal lontano 1993) e dal collega Sergio Spadaro. Diverso è stato invece l’atteggiamento del pm Storari che evidentemente non condivideva le valutazioni dei colleghi sulla credibilità del signor Armanna e perciò si lamentava dell’inerzia della procura nel trattamento giudiziario di determinati verbali. La coabitazione deve essere diventata sempre più complicata se, un mese or sono, è arrivata la firma congiunta in calce agli undici milioni di euro patteggiati da Eni non più per corruzione internazionale in Congo ma per induzione indebita a dare utilità. Tutta un’altra storia. 

 

E si spiega forse con la volontà di raccontare un’altra storia la scelta dei pm De Pasquale e Spadaro di non depositare la registrazione video, effettuata in maniera clandestina dall’avvocato Amara, in cui si sentiva l’ex manager della compagnia petrolifera Armanna che pianifica di “ricattare i vertici della società” preannunciando l’intenzione di far arrivare una “valanga di merda” e “avvisi di garanzia” ai vertici apicali dell’azienda. Nelle scorse settimane la procura di Brescia ha deciso di indagare De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) in relazione al processo sul caso Eni Shell Nigeria, e ha acquisito in Tribunale il video in questione non depositato dalla pubblica accusa tra gli atti del dibattimento terminato con l’assoluzione. La settima sezione penale, nelle motivazioni della sentenza, ha evidenziato il mancato deposito di un documento che porta “alla luce l’uso strumentale” che Armanna, licenziato da Eni un anno prima, aveva cercato di fare al fine di ricattare i vertici aziendali con dichiarazioni ritenute “false”; documento che, a detta dei giudici, costituiva una prova a favore degli imputati. Tuttavia, la ragione dell’iscrizione nel registro degli indagati dei due pm non risiede nell’omesso deposito al Tribunale del video registrato da Amara un paio di giorni prima che il 30 luglio 2014 Armanna si presentasse spontaneamente in procura con le prime accuse contro Eni. Come vedremo, alla base dell’iniziativa bresciana ci sono altri elementi che i pm decisero volutamente di ignorare, o di occultare, sotto la coltre pesante delle accuse.

 

Ritorna allora la domanda originaria: nel caso Eni-Nigeria abbiamo assistito a un processo secondo le norme e i crismi della giurisdizione o a una messinscena paragiudiziaria? Nell’aula di tribunale i protagonisti puntavano alla verità giudiziaria o una esecuzione nella pubblica piazza? La procura di Milano non ha depositato e non ha mai messo giudici e difensori a conoscenza di elementi emersi, da mesi, grazie all’attività investigativa svolta dal pm Paolo Storari. Omissioni non casuali dal momento che parliamo di elementi tutti volti a demolire l’attendibilità dei Ciancimino di turno. Da quegli elementi emerge come Armanna, coimputato ma pure teste d’accusa dell’Eni e dell’ad Descalzi nel processo sulle contestate tangenti in Nigeria, avesse trasmesso ai magistrati chat telefoniche artefatte al fine di fornire riscontro ai propri verbali; come lo stesso Armanna stesse cercando di accreditare, ancora con chat manipolate, circostante false su Descalzi e sul capo del personale Claudio Granata; e soprattutto come avesse quantomeno promesso, se non anche versato, cinquantamila dollari a un poliziotto nigeriano per indurlo a dirsi il fantasmagorico 007 “Victor” da lui più volte evocato invano e quindi a testimoniare a proprio favore nel processo. Il decreto con il quale la procura di Brescia ha eseguito la perquisizione informatica dei computer degli uffici dei due magistrati, De Pasquale e Spadaro, per acquisire le loro comunicazioni email, è stato poi comunicato al Csm, al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia, disvelando così la notizia dell’indagine a carico dei due magistrati: l’uno, De Pasquale, promosso a capo del pool Affari internazionali, e l’altro, il più giovane Spadaro, appena nominato tra i venti delegati italiani della neonata Procura europea antifrode. Ma davvero questi elementi erano ignoti a tutti? In realtà, il pm Storari aveva tentato, senza successo, di farli emergere presso i colleghi per suggerire un cambio di rotta sul caso Eni. Dall’altra parte, aveva trovato un muro. Né i cronisti di giudiziaria, i “segugi” che tallonavano i vertici Eni con l’intento di sguainare la penna dei giustizieri, avevano manifestato il minimo dubbio sull’attendibilità delle fonti di prova o sulla necessità di riscontri fattuali rispetto alle dichiarazioni eclatanti di un manager licenziato dalla società per motivi di spese gonfiate e di un avvocato che finirà per due volte in cella con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. 

 
L’iniziativa bresciana non nasce da qualche inchiesta giornalistica ma dall’interrogatorio di Storari nel procedimento che lo vede indagato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato all’allora consigliere del Csm Davigo i verbali segretati, resi dall’avvocato Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020 su una asserita associazione segreta denominata “Ungheria”. Storari racconta al procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, che quei verbali, a suo giudizio, erano stati lasciati galleggiare, con un atteggiamento attendista da parte dei vertici della procura, senza adeguate e incisive verifiche sull’attendibilità del dichiarante. Insomma, la vicenda Eni scatena una frattura lacerante in seno alla procura di via Freguglia: da una parte, i pm determinati a ottenere una condanna, a ogni costo; dall’altra, i dubbi di un singolo pm che non vuole arrendersi a una tesi precostituita per trovare un colpevole purchessia. Nel mezzo, il caravanserraglio mediatico che si limita a trascrivere pedissequamente i documenti fuoriusciti senza un esame critico, senza il minimo filtro.

  
Com’è noto, Storari, che non si beve la favola del pentimento di Amara e chiede, senza successo, l’arresto di quel collaboratore di giustizia che, a suo giudizio, continua a mentire e a commettere reati, sarà messo ai margini e, adesso, sotto procedimento disciplinare. Con il passare del tempo, grazie alla stampa compiacente, pronta ad avvalorare, con minuzia certosina, la tesi mainstream della procura, secondo ciò che la procura comanda, le “rivelazioni” eclatanti dei vari Ciancimino assumono valore e grandezza, i fuochi d’artificio di questi impostori che scorrazzano indisturbati tra giornali e talk-show, nelle praterie sterminate della cronaca giudiziaria, senza che qualcuno abbia l’ardire di domandar loro riscontro delle proprie parole. I novelli Ciancimino assurgono a “pentiti” del sistema, a collaboratori di in-giustizia, a un passo dalla redenzione propria e altrui attraverso il mascariamento del buon nome di un’azienda e delle sue figure apicali con l’effetto palingenetico di accelerare il repulisti e favorire ricambi e nomine. I falsi “pentiti”, in questo senso, sono instrumentum regni, un mezzo del potere per il potere; in un tal girone dantesco i giornalisti sono meri esecutori, ingranaggio fondamentale nella macchina del fango, anello di congiunzione tra uffici giudiziari e opinione pubblica. 

  

Che strana coppia, Piero Amara e Vincenzo Armanna. I due agiscono insieme, in modo coordinato, per truffare Eni e sfruttare il processo Opl 245 allo scopo di “far fuori” i vertici del colosso petrolifero. Per individuare le origini del sodalizio criminoso bisogna premere il tasto rewind. Maggio 2014, Descalzi è il nuovo numero uno di San Donato: tra le sue prime decisioni c’è la riconversione della raffineria di Gela, in Sicilia. Lì Amara porta avanti alcuni affari da anni. Nel 2013 Armanna è stato licenziato dalla società per aver fatto la cresta sui rimborsi spese per un valore di circa 180 mila euro. Per l’azienda, il manager avrebbe firmato contratti irregolari nel Golfo Persico: a cacciarlo è la gestione Scaroni.

 

Come ricostruisce il quotidiano la Verità, agli inizi di luglio 2014, dopo l’arrivo di un esposto in procura, partono i primi avvisi di garanzia per la presunta maxitangente da 1,1 miliardo di dollari per il giacimento petrolifero nigeriano. Sul finire del mese, il 28 luglio, Amara e Armanna vengono filmati dalla Guardia di Finanza nell’ufficio di Enzo Bigotti. Si parla del progetto di acquistare il blocco onshore dell’Eni in Nigeria. Amara e Armanna vogliono comprarli con l’aiuto di un imprenditore nigeriano di nome Kola Karim. L’idea è quella di acquistare i blocchi senza passare da una gara ufficiale ma in quella zona è difficile che l’operazione vada in porto. C’è Eni con i suoi referenti, Ciro Pagano e Roberto Casula. Durante quell’incontro negli uffici di Bigotti, Amara e Armanna discutono di come sfruttare il processo nigeriano per eliminarli. Armanna lo dice chiaramente: “[…] sono coinvolti sulla 245 e non escluderei che arrivi un avviso di garanzia. Mi adopero perché gli arrivi

 

”. Due giorni dopo, il 30 luglio, Armanna si reca in procura dal pm De Pasquale, titolare dell’inchiesta nigeriana. Nei giorni successivi finiscono sul registro degli indagati Descalzi, Scaroni, Casula, Pagano e gli altri, tutti poi assolti con formula piena. A settembre la notizia è sui giornali, con l’azienda sotto indagine la “strana coppia” pensa di poter concludere l’affare nigeriano ma San Donato decide di avviare in ogni caso una gara per la cessione del blocco. I due falliscono ma presto ci riprovano con la Napag dell’amico Francesco Mazzagatti, un’azienda di succhi di frutta pronta a riconvertirsi nel campo dei prodotti petroliferi. Napag riesce ad accreditarsi presso Versalis ma trova resistenze in Eni trading & shipping dove comanda Umberto Vergine. La tecnica per provare a farsi strada nell’oil business è sempre la medesima: dossier anonimi, denunce in procura che rimbalzano tra Trani e Siracusa. La prima archivia, la seconda (dove opera il pm Giancarlo Longo, amico di Amara) apre un’indagine.

 

Anche qui il teste principale è Armanna. A un certo punto c’è il rischio che il processo su Opl 245 finisca in Sicilia. I plichi contengono anche accuse nei confronti dei consiglieri indipendenti Karina Litvack e Luigi Zingales, invisi a Massimo Mantovani che, poi si scoprirà, avrebbe vergato di suo pugno quelle dichiarazioni. Vergine sarà fatto fuori. Al suo posto arriva Mantovani, permettendo così a Napag, e alla “strana coppia”, di avviare con successo le operazioni con il petrolio iraniano sotto embargo. Da questi intrecci nasce il tesoro da cento milioni di euro di Amara, Armanna e Mazzagatti a Dubai. Eni aveva denunciato tutto già tre anni fa: la procura di Milano, all’epoca, aveva deciso di non approfondire ritenendo invece promettente la pista su Opl 245. Sappiamo com’è andata a finire. 

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