gli eroi del giorno dopo
Tutti i carabinieri pataccari che raccontano oggi: le stragi si potevano evitare
Ciclicamente, con una puntualità disarmante, si sostiene che non ci sarebbero stati né morti né latitanti se solo si fosse dato retta ad alcuni carabinieri tutti d’un pezzo che sfidavano le gerarchie, ma sono stati silenziati o frenati nel momento di agire. Da chi? Mistero. Ricostruiamo le incongruenze di questa narrazione
Svettano i pennacchi rossi delle alte uniformi. Quelle che i carabinieri indossano nelle grandi occasioni. Il 5 giugno l’Arma ha festeggiato il compleanno numero 208. Una storia gloriosa, fatta di onore, sangue e sudore, impreziosita dalla consegna alla Bandiera di Guerra della medaglia d’oro al merito civile. La forma è sostanza. La parata ha una sacralità che va rispettata. Nelle principali città italiane si onorano i caduti, sfila il carosello equestre del reggimento a cavallo, vengono passati in rassegna i reparti speciali.
Ne manca uno, però. Il cerimoniale ha tagliato fuori il corpo speciale degli ex carabinieri della sesta giornata. Che colpevole dimenticanza! Neppure uno strapuntino di riconoscenza per il manipolo di eroi giunti a un passo dal cambiare il corso della lotta alla mafia. Stavano per sventare la strage di Capaci, arrestando Totò Riina prima che facesse saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Se fosse dipeso solo da loro Bernardo Provenzano sarebbe stato ammanettato ben prima del blitz di Montagna dei Cavalli, a Corleone. Matteo Messina avrebbe smesso di fare il latitante da un bel pezzo e si conoscerebbero i volti delle menti raffinatissime che tramavano contro la democrazia, strizzando l’occhio al terrorismo di destra.
Ciclicamente si sostiene la narrazione di alcuni carabinieri tutti d’un pezzo, silenziati o frenati nel momento di agire. Da chi? Mistero
Come nel teatro dell’assurdo i personaggi restano intrappolati in un mondo incomprensibile. Gli eroi in divisa, mancati e pensionati, mettono i gradi in bella mostra. Ciò rende automaticamente suggestivo, se non addirittura credibile, il loro racconto. E’ un inganno, in verità c’è solo dolore e sgomento.
Il paese coltiva la memoria di un lutto che non riesce ad elaborare. Ciclicamente, con una puntualità disarmante, si sostiene che non ci sarebbero stati né morti né latitanti se solo si fosse dato retta ad alcuni carabinieri tutti d’un pezzo che sfidavano le gerarchie, ma sono stati silenziati o frenati nel momento di agire. Da chi? Misteriosi ordini superiori. Erano lì per lì per arrestare i boss più pericolosi e hanno dovuto rimettere la pistola nella fondina. Mai un colpo di reni, mai un’insubordinazione che avrebbe cambiato la storia. Sarebbero stati celebrati come eroi dalla schiena dritta. E invece sono il simbolo delle occasioni mancate. In mano resta loro un pugno di se e di ma. Che magra consolazione rappresentano i resoconti del giorno dopo, la cronaca di quel che poteva essere e non è stato, la tardiva e evocazione di trame oscure.
A rileggerla la cronistoria delle occasione mancate sa di sberleffo. Prima o poi la prospettiva di analisi dovrà pur cambiare l’angolazione. Si smetterà di gridare al complotto per analizzare un dato di fatto incontrovertibile. E cioè che questi carabinieri della sesta giornata attesero e non intervennero. Come le truppe piemontesi che agli ordini di Carlo Alberto di Savoia aspettarono cinque giorni, nel 1848, prima di annunciare ai popoli della Lombardia e del Veneto che stavano accorrendo in appoggio degli insorti contro il dominatore austriaco. Nessuno gliene fa una colpa, per carità. Sono loro a cercare le colpe altrui. Senza trovarle, nonostante le inchieste, penali e giornalistiche.
L’ultimo intruppato è l’ex brigadiere Walter Giustini, un tempo in servizio a Palermo e oggi in pensione. Si è fatto largo fra tanti colleghi in divisa, finendo per oscurarli data la macroscopica rilevanza di ciò che ha raccontato ai microfoni di “Report”. La conclusione dell’articolato ragionamento è che la strage di Capaci poteva essere evitata. Roba da fare tremare i polsi. Se avessero dato retta a Giustini avrebbero arrestato Totò Riina molto prima del 15 gennaio 1993. Giustini aveva ricevuto l’imbeccata un anno prima dell’eccidio del ’92. Gliela aveva spifferata un suo confidente, Alberto Lo Cicero. Bisognava seguire Salvatore Biondino, l’autista del capo dei capi. Dando credito a Giustini oggi si saprebbe anche chi ha agito nell’ombra, supportando i mafiosi o forse dettando gli ordini ai boss stragisti. E cioè Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e poi cofondatore dell’organizzazione di destra Ordine nuovo.
Se davvero le cose sono andate come oggi racconta l’ex brigadiere Walter Giustini, qualcuno si è preso gioco di lui e di almeno un paio di magistrati
Lo Cicero è morto. La scena oggi se l’è presa una sua ex compagna che rilascia interviste. I verbali, però, sono rimasti a futura memoria. Memoria di cui evidentemente difettava il neo pentito quando fra agosto 1992 e gennaio 1993 sedette davanti ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Interrogato dai pubblici ministeri disse di non sapere che Biondino fosse l’autista di Riina. Era ignaro della identità del corleonese, tanto da sgranare gli occhi il giorno del suo arresto, quando tutti i media mostrarono il volto del padrino. Lo Cicero, factotum di un boss, si rese conto solo dopo avere letto i giornali e guardato la tv di essere stato, senza saperlo, faccia a faccia con il sanguinario capomafia. Riina era di casa nella sontuosa villa di Mariano Tullio Troia. Banchettava assieme a “numerosissimi invitati” o presenziava a “riunioni ristrette” con cinque o sei persone al massimo.
Ricapitolando: Lo Cicero sa che Biondino è l’autista di Riina, lo confida nel ’91 al brigadiere Giustini, ma lo nasconde durante gli interrogatori del ’92 e ’93. Oggi si parla di carte scomparse e informative mai trasmesse. Passi pure per buona questa tesi, ma la domanda resta in piedi: perché Lo Cicero nulla disse quando si trovò di fronte all’unica e ufficiale occasione per dire la verità nient’altro che la verità? La Procura di Caltanissetta si è affrettata a smentire i racconti di Giustini e della ex compagna di Lo Cicero.
Nei trent’anni successivi nulla accade, fino all’apparizione televisiva di Giustini a cui si deve un’altra rivelazione choc. Il brigadiere seppe, sempre da Lo Cicero, che Stefano Delle Chiaie si recò “un paio di volte a Capaci” prima della strage. Almeno di questo fatto e della pista nera dovrà pur esserci traccia nei verbali di Lo Cicero. Altra delusione.
Il collaboratore di giustizia si ricordava del cartello “lavori in corso” a poche decine di metri dal luogo dove fu piazzato il tritolo per l’attentato, dei mucchi di terra (disse esattamente che “non c’erano scavi, ma mucchi di terra”) che impedivano il transito della sua auto a bordo della quale stava accompagnando il figlio a casa di amici. Si ricordava pure dell’uomo “vestito come un contadino”, del motociclista alla guida di una Vespa (per la precisione “un vespino rosso”), dei mafiosi che armeggiavano in un deposito di materiale edile. Una memoria fotografica stupefacente, la sua. E Delle Chiaie? Non pervenuto. Di una cosa Lo Cicero si disse certo: mai poteva immaginare che stessero progettando la strage di Capaci. Piuttosto dallo strano silenzio di alcuni suoi amici temette che lo volessero ammazzare. Niente attentato a Falcone, niente pista nera.
Un generale dei carabinieri, Nicolò Gebbia, sa come arrivare a due super latitanti e si affida alla “concorrenza”, la polizia. Suona quasi grottesco
Il collaboratore di giustizia non c’è più. Non può giustificare le sue amnesie. Stavolta, però, non tutto è perduto. Scorri le trascrizioni dei verbali ed ecco accendersi la speranza. Giustini, infatti, era presente agli interrogatori del collaboratore di giustizia. Nulla disse però, o almeno non vi è traccia di un suo cenno di sorpresa di fronte alla clamorosa scomparsa di quelle delicatissime informazioni ricevute in via confidenziale da Lo Cicero e poi taciute. Certo, si obietterà, la polizia giudiziaria mica può suggerire le domande, figuriamoci le risposte. Vero, ma è lecito dubitare di fronte ai silenzi di Lo Cicero e Giustini per quelle dimenticanze nel passaggio dal ruolo borderline di confidente a quello ufficiale di collaboratore di giustizia.
Un’altra occasione persa per acciuffare i colpevoli i cui nomi sono rimasti nella memoria di un pentito silenziato da chissà quali stregonerie e sulla punta della lingua di un carabiniere che si è sciolto davanti a una telecamera, ma solo tre decenni più tardi.
Per la verità Giustini ha rilasciato negli anni qualche altra intervista, ricordando le sue gesta di cacciatore di latitanti senza mai fare cenno alcuno al fatto che, se davvero le cose sono andate come oggi racconta, qualcuno si è preso gioco di lui e di almeno un paio di magistrati.
Poteva andare diversamente e invece le cronache fanno fatica a contenere la ricostruzione di piste nerissime e mandanti esterni delle stragi.
Di occasioni mancate è piena la storia. Il processo sulla Trattativa stato-mafia, picconato nella ricostruzione della pubblica accusa, è stato lo Stonehenge della giustizia. Un luogo in cui si sono radunati i tenutari di ancestrali misteri. Accadde che Nicolò Gebbia, un ex comandante del reparto operativo dei carabinieri di Palermo, non l’ultimo dei graduati ma un generale con pieni poteri, riferisse di essere stato ostacolato nella cattura di Bernardo Provenzano. Prese carta e penna e scrisse ai pubblici ministeri del processo di cui sopra. Ed ecco il misfatto: poco prima di trasferirsi a Venezia aveva consegnato degli appunti al generale Gennaro Niglio allora comandante della legione siciliana dei carabinieri, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004, mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Si trattava di preziosissime informazioni raccolte da fonti confidenziali che potevano condurre dritti dritti non solo a Provenzano, ma pure a Matteo Messina Denaro. Nessuno, così raccontò Gebbia, gli diede retta. Forse perché in quanto comandante gli sarebbe bastato ordinare affinché qualcuno eseguisse? Sta di fatto che l’inascoltato generale Gebbia, stanco di aspettare, decise di raccogliere il suo mucchietto di informazioni riservate per consegnarlo alla polizia. Un generale dei carabinieri sa come arrivare a due super latitanti e si affida alla “concorrenza” prima del trasferimento in laguna. Suona quantomeno grottesco.
Riconoscere Messina Denaro dall’identikit è già di per sé una notizia. Ricordate quello di Provenzano? Non ci azzeccava nulla con la faccia vera
Cosa contenevano quelle carte? Probabilmente c’era il resoconto dell’incontro “in via Libertà”, la strada dello shopping e delle ville liberty di Palermo. All’ombra dei platani Gebbia parlò con “quell’informatore che sapeva che Matteo Messina Denaro era stato spostato su un fuoristrada nella provincia di Bagheria”.
Forse era lo stesso mezzo a bordo del quale, sempre a Bagheria, lo aveva avvistato il maresciallo Saverio Masi, storico capo scorta dell’ex pubblico ministero Antonino Di Matteo. Era il 2004. Masi era libero dal servizio. Vide una macchina davanti al cancello di una villa. Era talmente vicino al latitante da poterlo vedere in faccia. Era uguale all’identikit che circolava sui media. Il che è già di per sé una notizia. Ricordate quello di Provenzano? Non ci azzeccava nulla con la faccia vera che avremmo conosciuto nel 2006, il giorno dell’arresto nel covo di Montagna dei cavalli dove si era rifugiato, stanco e malato. Con la ricostruzione del volto di Messina Denaro gli esperti hanno fatto bingo. Parola di Masi che lo ha riconosciuto senza dubbio alcuno. Come dubbi non ebbe il giorno in cui si era acquattato nelle campagne di Mezzojuso. Era certo che in un casolare si nascondesse Provenzano. All’epoca Masi era in servizio alla sezione antirapine, ma si era messo sulle tracce del latitante. Gli sarebbe stato impedito di acciuffarlo con il pretesto di piazzare una telecamera per tenere costantemente sotto controllo il casolare.
A una manciata di metri dalla cattura di Binnu c’era già arrivato un altro maresciallo, Salvatore Fiducia. Nel 2001 era in contatto con Mata Hari, nome in codice di una fonte confidenziale. Era la seconda moglie di Michele Navarra, medico e capomafia di Corleone ucciso da Luciano Liggio a metà degli anni Cinquanta. Mata Hari conosceva gli spostamenti e i covi del latitante, tra cui una casa a Trabia. Fiducia e la donna, quella volta impavidi, spiavano l’immobile dall’esterno. Furono bloccati da un uomo armato. Tutto finì come sempre in una relazione di servizio. Nel 2011 i due carabinieri riferirono di essere arrivati davvero a un’incollatura dalla cattura di Messina Denaro. Era a bordo dell’ennesimo suv con i vetri oscurati, preceduto da un altro mezzo che speronò una macchina per agevolare la fuga del latitante per le strade di Bagheria. Restò un fantasma tra i fantasmi, come quelli a cui uno scultore diede forma usando il tufo di Aspra e che oggi accolgono i visitatori nella villa che fu del principe di Palagonia.
Magari i fantasmi potessero parlare. Intanto la storia ci riporta alla cruda realtà. Falcone è stato ammazzato assieme a Francesca Morvillo e agli agenti di scorta. Riina è stato arrestato dopo la strage, nonostante il carabiniere Giustini un anno prima sapesse chi seguire per fermarlo. Nella parata dei corpi speciali non c’è posto per i carabinieri della sesta giornata.
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